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Cronaca
16 giugno1926 : il crollo del balcone di via Generale Orsini a Napoli
Ad ottanta anni di distanza dal disastro rimane l’attualità di un impegno contro il sistema di potere e il trasformismo locale
di Antonio Pisanti
Ricorre in questi giorni l’ottantesimo anniversario della scomparsa di Aurelio Padovani, capitano dei Bersaglieri diventato a Napoli e in Campania punto di riferimento di quel fascismo rivoluzionario che, proponendosi di tener fede alle sue origini, rifiutava ogni compromesso con il sistema di potere del notabilume locale e con il suo trasformismo.

Di lui avevo sentito parlare spesso in famiglia da ragazzino. La figura di Padovani era avvolta in un mito, accresciuto per noi giovanissimi dal fascino delle rievocazioni che venivano dai documenti e dalle testimonianze dirette dei nostri familiari ed, ancor più, dal “mistero” della sua fine, in quel pomeriggio del 16 giugno del 1926, in via Generale Orsini, dove era crollata la balaustra del balcone dal quale, per rispondere al saluto della folla lì convenuta nel suo giorno onomastico, il “Comandante” si era affacciato, con un gruppo di amici a lui più vicini. Tra le vittime della tragedia che vennero giù dal balcone con Padovani, c’era un fratello di mia madre, Antonino Micillo.

Dopo ottanta anni da quel drammatico avvenimento, il cui seguito, per la partecipazione e le emozioni che suscitò in città, confermò la popolarità del personaggio e della sua linea politica, è più che mai illuminante la lettura di un accorto e documentato saggio in cui Gerardo Picardo ha fatto luce sulle vicende del primo fascismo in Campania e sull’incidente che costò la vita a Padovani e ad altri otto componenti del suo movimento.

Dalle pagine di “Aurelio Padovani, il fascista intransigente” (Ed. Controcorrente), si comprende quanto poco fondata potesse essere l’ipotesi del giallo, tendente a far valere la tesi del delitto politico tramato dai mussoliniani per eliminare un avversario scomodo in ascesa, poco disposto ad assecondare i compromessi per i quali il Duce, dopo l’enfasi rivoluzionaria iniziale, andava via via facendosi più disponibile.

Anche se infondata, la tesi dell’attentato fu magari utile per quanti di essa si servirono nell’intento di acuire la dissidenza dei padovaniani e di discreditare i gruppi di potere mussoliniani. Non a caso, tra i documenti recuperati da Picardo per ricostruire la vicenda ve ne sono alcuni che danno una significativa testimonianza dell’atmosfera venutasi a creare tra i fascisti napoletani dopo il disastro di via Generale Orsini. Gli stessi ordini del servizio e le misure d sicurezza predisposti in occasione dei funerali e l’attento monitoraggio delle celebrazioni e degli avvenimenti successivi danno la prova inconfutabile di come una interpretazione tendenziosa delle cause del crollo potesse far temere fermenti pericolosi per l’ordine pubblico.

Diradate, forse definitivamente, le nebbie del dubbio intorno alla sua sventurata fine, emerge la figura di Padovani, con quelle doti di coerenza, di onestà e rigore morale che gli furono riconosciute dallo stesso Guido Dorso, al quale Picardo e, nella prefazione, Giorgio Accame si rifanno per accreditare i meriti del personaggio attraverso una autorevole testimonianza proveniente da ben altre posizioni politiche. Recentemente Gigi Di Fiore, in “La camorra e le sue storie” (Ed. Utet), ha ricordato l’azione di contrasto di Aurelio Padovani nei confronti di camorristi e usurai.

A distanza di tanti anni, rimane l’amara constatazione della persistente ed incalzante presenza del sistema di clientele e di trasformismo a Napoli e nel Mezzogiorno d’Italia, che Padovani, come Dorso, sebbene con strumenti diversi, intendeva combattere nella speranza di un futuro migliore per il Sud e per l’Italia. “Un capo che voleva evitare l’arrivismo e la cuccagna”, ed ancora, “Un uomo solo nel tentativo di riformare il costume politico di una regione” scrisse di Padovani Guido Dorso, che pure sapeva bene come il Capitano non potesse essere ritenuto solo, visto il gran consenso di popolo, ma certamente lo era rispetto ai ceti dirigenti e all’intellighenzia locale.
12/6/2006
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