Cultura
La Cappella di San Gennaro a Napoli e il suo Tesoro
di Achille della Ragione
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La
Cappella di San Gennaro a Napoli e il suo Tesoro
La Cappella di San Gennaro è una delle meraviglie dell’
arte barocca a Napoli, adorna di capolavori del
Domenichino, Giovanni
Lanfranco, Jusepe de
Ribera, Cosimo
Fanzago, Francesco
Solimena, oltre che di opere di altissima
oreficeria.
La storia della sua realizzazione racconta inoltra le
vicissitudini umane fra rivalità, aspirazioni, gelosie, tramandate da numerose leggende: la
Deputazione della Cappella (fondata nel 1601 a tale scopo e ancor oggi incaricata della custodia della Cappella e del Tesoro) decise di affidarne la decorazione ad artisti non napoletani, al fine di ricorrere ai migliori talenti europei ed evitare lotte locali. Ne seguì la rivolta dei pittori partenopei che sfociò in veri e propri atti di violenza.
Cupola affrescata da Giovanni Lanfranco con il Paradiso. Nei quattro pennacchi si dispiegano gli affreschi del Domenichino dedicati alle storie di San Gennaro e dei Santi Compatroni di Napoli.
L’edificio fu costruito lungo il fianco destro del Duomo, quale ringraziamento a san Gennaro per la fine della
peste che nel
1527 aveva flagellato la città, in quegli anni colpita anche dalla guerra fra Francia e Spagna. Nel
1630 la sua decorazione fu affidata al Domenichino, dopo che numerosi pittori fra i quali il Cavalier d’Arpino e Guido Reni avevano rinunciato all’incarico a causa delle
minacce e delle
persecuzioni messe in atto contro di loro. Lo stesso Domenichino portò a termine il lavoro
fuggendo a più riprese, e a più riprese convinto dalla Deputazione a tornare a Napoli, fino alla
morte improvvisa nel 1641: avvelenato, secondo una voce popolare.
Nel corso di dieci anni Domenichino realizzò un ciclo di
affreschi e dipinti dedicati alla vita di San Gennaro e ai Santi compatroni di Napoli: si ammirano nei sottarchi, nei pennacchi, nei lunettoni e nei cinque dei sei dipinti su rame che sormontano gli altari laterali della Cappella. Il sesto dipinto è opera di Jusepe de Ribera, raffigurante “
San Gennaro illeso nella fornace”.
La morte improvvisa del Domenichino rese necessario il coinvolgimento di un altro artista al fine di completare la decorazione interna: fu dunque chiamato Giovanni
Lanfranco, che a Napoli aveva già lavorato alla Certosa di San Martino, al Gesù Nuovo e nella chiesa dei Santi Apostoli. Lanfranco affrescò la cupola della Cappella con una rappresentazione del
Paradiso, magnifico esempio di illusionismo barocco.
Oltre alle opere d’arte, la Cappella di San Gennaro è uno scrigno di
altissima oreficeria: vi si ammirano infatti il celeberrimo
Busto - risalente al 1305, dono di re
Carlo d’Angiò II - e il
paliotto in argento opera del Vinaccia, preceduto da due sontuosi candelieri del 1671. La Cappella è inoltre popolata da
cinquantaquattro statue e busti in argento dei
Santi compatroni, opere fra gli altri di Giulio Finelli allievo di Gian Lorenzo Bernini.
Fra le altre opere d’arte vanno annoverati l’
altare in porfido, disegnato da Francesco Solimena, il
pavimento e il grande
cancello d’ingresso, entrambi di Cosimo Fanzago.
Nella Cappella sono custodite le reliquie e il
sangue di San Gennaro: in una cassaforte d’argento dietro l’altare maggiore sono racchiuse le
ampolle con il sangue del Santo, che vengono estratte tre volte l’anno in occasione delle ricorrenze liturgiche, mentre il Busto trecentesco contiene le ossa del cranio.
Il corpo del Santo si trova invece nel succorpo del Duomo, la cripta rinascimentale ricavata sotto il presbiterio della Cattedrale e a lui intitolata.
Per comprendere tale separazione delle reliquie è opportuno riferirsi alla
storia del martire Gennaro, vescovo di Benevento che nel IV secolo morì decapitato nei pressi della solfatara di Pozzuoli. Nel V secolo le reliquie furono trasportate da Pozzuoli alle catacombe di Napoli (che da lui presero il nome), per essere poi trafugate nell’831 dal principe longobardo Sicone e portate a Benevento (dal 571 Ducato Longobardo).
A Napoli rimasero alcune ossa del cranio - custodite entro lo splendido busto donato da Carlo II d’Angiò - e le ampolle con il sangue. Tra il XII e il XIII secolo, in un’epoca funestata da guerre e saccheggi, le ossa furono riparate al santuario di Montevergine da dove, nel 1497, furono solennemente traslate del Duomo di Napoli e collocate sotto il presbiterio.
Le opere d’oreficeria che non si trovano nella Cappella sono esposte presso l’adiacente
Museo del Tesoro di San Gennaro, una collezione di capolavori unica al mondo che si è creata nel corso di
settecento anni a testimoniare sia l’incredibile
abilità artigiana e la
creatività di maestri orafi, scultori, argentieri dal quattordicesimo al ventesimo secolo, sia la
devozione di fedeli di varia estrazione, dai popolani ai nobili, re e regine.
Fra gli oggetti esposti - calici, pissidi, ostensori, candelabri, busti e statue, parati d’altare - due in particolare colpiscono per il loro aspetto, del tutto straordinario, e per le storie che raccontano: la collana di San Gennaro e la mitria.
La
collana di San Gennaro fu realizzata a partire dal
1679 per ornare il Busto del Santo: l’incarico fu conferito dalla Deputazione della Real Cappella del Tesoro all’orafo napoletano Michele Dato con l’utilizzo di diamanti, smeraldi e rubini donati dalla Deputazione stessa e montati su tredici elementi collegati a maglia. Il risultato finale però fu ritenuto poco prezioso e nei decenni successivi la collana fu arricchita da
gioielli donati da re e regine in visita: tra di essi la regina Maria Carolina d’Asburgo, Francesco I d’Austria, Giuseppe Napoleone Bonaparte, la regina Maria Cristina di Savoia, Vittorio Emanuele II di Savoia, Carlo III di Borbone.
Nella parte superiore della collana furono inseriti due orecchini con diamanti e perle donati da una
semplice popolana, che si era recata nella Cappella per ringraziare San Gennaro di averla salvata dalla peste del 1844: gli orecchini erano il bene più prezioso della devota, tramandati di madre in figlia da generazioni. La Deputazione, ritenendo il gesto nobile, decise di applicare i due gioielli all’opera.
Al centro si osserva invece un anello con diamante, donato da
Maria José del Belgio in occasione della sua visita: la consorte di Umberto II di Savoia si presentò in visita alla Cappella a mani vuote, mentre la tradizione prevedeva di offrire un dono al patrono. Dopo un iniziale imbarazzo, Maria José si sfilò dal dito l’anello e lo donò alla Deputazione, che decise di inserirlo al centro, fra gli orecchini della popolana. La composizione finale dell’opera è dunque il risultato di
250 anni di storia, nel magnifico assemblaggio di gioielli di manifatture ed epoche diverse e di committenze illustri.
La
Mitra gemmata di San Gennaro è il capolavoro più celebre del Tesoro e uno degli oggetti più preziosi al mondo, composta da
3.694 pietre preziose, 198 smeraldi, 168 rubini, 3.328 diamanti, montate a comporre un disegno di fiori, foglie e racemi. Fu realizzata a partire dal 1712 da Matteo Treglia insieme a 50 collaboratori grazie a donazioni e
sottoscrizioni che coinvolsero popolani, esponenti del clero, nobili, l’imperatore stesso. La Deputazione della Cappella del Tesoro ne commissionò la realizzazione per ornare il busto-reliquiario di San Gennaro.
Oltre all’argento della montatura, che costituisce il fondo della Mitra, si osservano dorature che esaltano la cromia dei diamanti, dei rubini e degli smeraldi. Ogni pietra inoltre rappresenta un
valore morale e religioso, quale l’aspetto spirituale della fede (i
diamanti), l’umanità simboleggiata dal sangue di San Gennaro (i
rubini), la perfezione dell’unione con Dio che dona la conoscenza (gli
smeraldi).
Gli smeraldi sono stati inoltre nominati dai gemmologi con il nome dei deputati che commissionarono l’opera: tra di essi Don Carlo Caracciolo, Don Fabio Russo, Don Carlo Serra principe di Pado, Don Giuseppe Piccolomini d’Aragona, Don Ottavio Gesualdo.
Oltre che per la sua preziosità la Mitra è anche un
capolavoro d’ingegneria: dal peso di 18 kg, possiede un sistema interno di ammortizzatori per assorbire i colpi del trasporto durante le processioni religiose.
Meritano infine una menzione le
sagrestie, che precedono la Cappella e che appartengono al percorso di visita: s’incontrano dopo aver ammirato il Museo e prima di accedere alla Cappella. Anch’esse affidate nel corso dei secoli alla Deputazione, sono ricche di
affreschi,
stucchi e
marmi. In particolare, nella Sagrestia di
Luca Giordano si ammira al centro del soffitto un affresco del 1668 eseguito dal pittore accompagnato dalla sua firma “Jordano F” [Fecit].