Recensioni
L’albatro di Simona Lo Iacono
di Luigi Alviggi
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Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo, 1896 – Roma, 1957) fu uno scrittore, principe siciliano, il cui capolavoro “
Il Gattopardo” - rifiutato da molti editori mentre in vita - venne pubblicato un anno e mezzo dopo la morte.
ll libro è centrato sul personaggio di Fabrizio Corbera, Principe di Salina - trasfigurazione del bisnonno paterno dell’Autore, Giulio di Lampedusa, astronomo per passione - colto nel difficile periodo di transizione, sociale e politica, tra l’impresa dei Mille di Garibaldi e il crollo del Regno delle Due Sicilie.
Fu l’illustre Giorgio Bassani (Bologna, 1916 – 2000), autore di un altro capolavoro “
Il giardino dei Finzi Contini” (1962) e allora editorialista della Feltrinelli, a capire la maestria e la grandezza dirompente del Tomasi promuovendone la pubblicazione (1958) e il conseguente successo mondiale.
La smisurata poetica, celata a piene mani sotto il manto lieve della prosa, fu chiara già alla prima lettura nel suo dilatato respiro al grande letterato emiliano. Il romanzo muove dalla sala del rosario di palazzo Salina dove Fabrizio, il gattopardo, vive con la moglie Stella e i loro sette figli, a fine recita nel maggio 1860, proprio alla vigilia dello sbarco garibaldino a Marsala. Scrive Lo Iacono:
“
Il simbolo dei Lampedusa, invece, nonostante la forte amicizia con la Chiesa, non era mai sta¬to altrettanto mistico. I Tomasi discendevano da Bisanzio. Erano cartaginesi conquistatori, figli di Didone. Se appro¬davano in una terra straniera non ci piantavano il simbolo dei crociati, ma gli artigli.
E, infatti, da circa quattro secoli il nostro stemma non ricordava Dio, ma gli uomini.
Ed era un leopardo gattopardato.
Un gattopardo. ”
C’è da dire, nel ribadire l’enorme valore del libro di Tomasi, che esso è specchio di un’epoca di ben più di un secolo addietro e quindi l’Autrice guadagna anche il merito di donare un respiro moderno a quanto alla lettura odierna dell’originale appare pacato nel ritmo e di andamento congruo a un’opera concepita a metà secolo scorso, dunque circa tre quarti di secolo fa. È però d’obbligo sottolineare l’amore smisurato per il dettaglio e la precisione pittorica del Tomasi nella descrizione di ambienti e personaggi della società coeva, nobiliare e no.
Si prendano a esempio le pennellate sulla figura di Don Calogero Sedàra, sindaco di Donnafugata, feudo dei Salina, e padre dell’affascinante Angelica per la quale perderà la testa il pupillo di Fabrizio, Tancredi, giovane bello e squattrinato.
Il Tomasi tratteggia innumerevoli scene con straordinaria ricchezza di particolari, delineando agli occhi del lettore un quadro preciso in ogni aspetto, a rendere grati per il portarci quasi in presenza dell’evento narrato. Riportiamo due esempi di queste meraviglie. Il primo riguarda, dopo il Te Deum in chiesa per l’arrivo estivo dei principi a Donnafugata, gli inviti d’obbligo per la consueta cena serale (con anticipazioni infauste del tempo a venire).
Il secondo è il ballo di Fabrizio con Angelica, futura sposa di Tancredi, immortalato al meglio nel film omonimo diretto da un altro gigante:
“
Al basso della scalinata le autorità si congedarono, e la Principessa, che aveva avuto bisbigliate le disposizioni du¬rante la cerimonia, invitò a pranzo per quella sera stessa il Sindaco, l'Arciprete e il Notaio. L’Arciprete era scapolo per professione, ed il Notaio per vocazione, e cosi la que¬stione delle consorti per essi non poteva posarsi; langui¬damente l’invito per il sindaco venne esteso alla di lui moglie: era questa una specie di contadina, bellissima, ma giudicata dal marito stesso per più d'un verso impresenta¬bile; nessuno quindi fu sorpreso quando egli disse che essa era indisposta; ma grande fu la meraviglia quando aggiunse: “Se le Loro Eccellenze permettono verrò con mia figlia, con Angelica, che da un mese non fa che parlare del piacere che avrebbe a esser da Loro conosciuta da grande.” Il consenso venne naturalmente dato; e il Principe, che aveva visto Tumeo sogguardare da dietro le spalle degli altri, gli gridò: “E anche voi, si capisce, don Ciccio, e venite con Teresina.” E aggiunse rivolto a tutti gli altri: “E dopo pranzo, alle nove, saremo felici di vedere tutti gli amici.” Donnafugata commentò a lungo queste ultime parole. Ed il Principe, che aveva trovato Donnafugata immutata, venne invece trovato molto mutato lui, che mai prima avrebbe adoperato un modo di dire tanto cordiale; e da quel mo¬mento, invisibile, cominciò il declino del suo prestigio.”
“Angelica e don Calogero tardavano, e di già i Salina, pensavano a inoltrarsi negli altri saloni, quando si vide Tancredi piantare in asso il proprio gruppo e dirigersi come un razzo verso l'ingresso: gli attesi erano giunti. Al disopra dell’ordinato turbinìo della crinolina rosea, le bianche spalle di Angelica ricadevano verso le braccia forti e dolci; la testa si ergeva piccola e sdegnosa sul collo liscio di gio¬ventù e adorno di perle intenzionalmente modeste. Quando dall’apertura del lungo guanto glacé essa fece uscire la mano, non piccola ma di taglio perfetto, si vide brillare lo zaffiro napoletano.
Don Calogero era nella di lei scia, sorcetto custode di una fiammeggiante rosa; nei suoi abiti non vi era eleganza, ma decenza sì, questa volta. Solo suo errore fu di portare all'occhiello la croce della Corona d'Italia conferitagli di recente; per altro essa scomparve presto in una delle tasche clandestine del frac di Tancredi.
Il fidanzato aveva di già assegnato ad Angelica l’impas¬sibilità, questo fondamento della distinzione (“Tu puoi essere espansiva e chiassosa soltanto con me, cara; per tutti gli altri devi essere la futura principessa di Falconeri, superiore a molti, pari a chiunque”), e quindi il saluto di lei alla padrona di casa fu una non spontanea ma riusci¬tissima mescolanza di modestia verginale, alterigia neo¬aristocratica e grazia giovanile.”
(…)
“Principe,” diceva Angelica, “abbiamo saputo che lei era qui; siamo venuti per riposarci, ma anche per chiederle qualche cosa; spero che non me la rifiuterà.” I suoi occhi ridevano di malizia, la sua mano si posava sulla manica di don Fabrizio. “Volevo chiederle di ballare con me la prossima mazurka. Dica di sì, non faccia il cattivo: si sa che lei era un gran ballerino.” Il Principe fu contentissimo, si sentiva tutto ringalluzzito. Altro che cripta dei Cappuccini! Le sue guancie pelose si agitarono per il piacere. L’idea della mazurka però lo spaventava un poco: questo ballo militare, tutto battute di piedi e giravolte, non era più roba per le sue giunture. Inginocchiarsi davanti ad Angelica sarebbe stato un piacere, ma se dopo avesse fatto fatica a rialzarsi?
“Grazie, figlia mia; mi ringiovanisci. Sarò felice di ub¬bidirti, ma la mazurka no; concedimi il primo valzer.”
“Lo vedi, Tancredi, com’è buono lo zio? Non fa i ca¬pricci come te. Sa, Principe, lui non voleva che glielo chiedessi: è geloso.””
(…)
“La coppia Angelica-don Fabrizio fece una magnifica fi¬gura. Gli enormi piedi del Principe si muovevano con deli¬catezza sorprendente e mai le scarpette di raso della sua dama furono in pericolo di esser sfiorate. La zampaccia di lui le stringeva la vita con vigorosa fermezza, il mento poggiava sull'onda letèa dei capelli di lei; dalla scollatura di Angelica saliva un profumo di bouquet à la Maréchale, soprattutto un aroma di pelle giovane e liscia. Alla memo¬ria di lui risalì una frase di Tumeo: “Le sue lenzuola deb¬bono avere l'odore del paradiso.” Frase sconveniente, frase villana; esatta però. Quel Tancredi...
Lei parlava. La sua naturale vanità era soddisfatta quanto la sua tenace ambizione. “Sono così felice, zione. Tutti sono stati tanto gentili, tanto buoni. Tancredi, poi, è un amore; e anche lei è un amore. Tutto questo lo devo a lei, zione: anche Tancredi. Perché se lei non avesse voluto, si sa come sarebbe andato a finire.” “Io non c'entro, figlia mia; tutto questo lo devi a te sola.” Era vero: nessun Tancredi avrebbe mai resistito alla sua bellezza unita al suo patrimonio. La avrebbe sposata calpestando tutto. Una fitta gli traversò il cuore: pensava agli occhi alteri e scon¬fitti di Concetta. Ma fu un dolore breve: ad ogni giro un anno gli cadeva giù dalle spalle: presto si ritrovò come a venti anni, quando in quella stessa sala ballava con Stella, quando ignorava ancora cosa fossero le delusioni, il tedio, il resto. Per un attimo, quella notte, la morte fu di nuovo ai suoi occhi “roba per gli altri.””
Dobbiamo quindi ricordare l’eccellente omonimo film (1963) di Luchino Visconti di Modrone (Milano 1906 – 1976), con Claudia Cardinale nei panni della bellissima Angelica, l’altrettanto bello Alain Delon nei panni dello scriteriato Tancredi Falconeri, Burt Lancaster è Fabrizio Salina, Paolo Stoppa Don Calogero. Anche quest’opera, con la maestosa bellezza delle sue immagini e l’immortale scena del ballo, recò del suo al successo mondiale del libro.
L’opera della Lo Iacono pone come voce narrante lo stesso Giuseppe, iniziando dai suoi 7 anni, e già nelle prime pagine gli viene affiancato il coetaneo Antonno, un essere magico e indefinito che “
era tutto al contrario”. Il titolo “
L’albatro” nasce da una frase significativa di questo compagno speciale “
principuzzu, io a vossia ci farò l’albatro… non la lascerò mai. Con tempo bonu o tempo tintu.” Emblematica la citazione da Baudelaire, più volte richiamata dall’Autrice:
“
Poi la madre aprì il libro delle poesie e lesse.
«Souvent, pour s’amuser les hommes d’équipage / prennent des albatros, vastes oiseaux des mers, / qui suivent, indolents compagnons de voyage, / le navire glissant sur les gouffres amers».
E io tradussi: «Sovente, per divertirsi, i marinai catturano degli albatri, grandi uccelli marini che seguono, in¬dolenti compagni di viaggio, la nave scivolante sugli amari abissi».
Antonno era incantato. Gli albatri. Non ne aveva mai sentito parlare, né mai ne aveva visti.
Che uccelli erano?
«L’albatro è una creatura libecciosa e marinara» disse la madre. «Come un cane fedele al guinzaglio delle navi. Te-nacissimo, non abbandona il capitano nemmeno nella di¬sgrazia. Dritta o storta, l’albatro continua a seguire la sorte del suo capitano, fino a che il vento, il tracollo e la tempesta non lo costringono a inabissarsi.» .”
Antonno compie tutte le azioni all’inverso, da come indossa gli abiti al camminare all’indietro per andare avanti... È lui a rappresentare l’essenza del sovrannaturale, mescolato in forti dosi in molte, tante, pagine de ““
L’albatro”. È il protagonista profondo, anche se – con un profilo basso - mai esplode fuori misura, è quasi ordinario come a trarre origine dalle credenze popolari che amano, in Sicilia forse più che altrove, mescolare la realtà a quel tanto di fantastico che non mira a sconvolgere l’andamento dei fatti ma piuttosto a enfatizzarli, accentuandone lo spessore.
Il risultato, il più delle volte prezioso, è il chiarire molte cose che non possono trovare spiegazione nelle superficiali realtà della vita degli uomini. Che sia Antonno, l’albatro, o la “
donna di fuora” (altra presenza nel libro) poco importa: uni e trini, sono indistinguibili nella origine indefinita. L’effetto finale è poter approdare, loro tramite, a risultati altrimenti irraggiungibili.
È l’arma segreta con la quale il “principuzzu” ascende ancor più di livello, e può avvicinarsi nel pensiero ai miti eterni della fanciullezza e delle tante storie lette o narrate, quando ancora incapace di suo di fare queste cose. La tenebrosa copertina del libro accentua ancor più quest’aura di mistero. Chi è il bimbo che si affaccia, timido ma curioso, dall’uscio appena socchiuso? Antonno o Giuseppe?
Poco importa! È il fanciullo (oggettivazione, forse, del fanciullino pascoliano che si pone in rapporto con il mondo mosso da fantasia e poesia, eludendo la ragione?) che mostra acceso interesse a spiare l’ignoto mondo degli adulti. È il perpetuarsi perenne del desiderio umano, cui somma aspirazione è schiudere, anche solo minimamente, il sipario che cela irremovibile il domani di ciascuno…
Costante malinconia per il modo di vivere che va svanendo emana da ogni pagina dello splendido originale. Uno zefiro continuo perché quanto descritto si proponga sfondo di una storia più grande, un affresco della Vera Storia di un tempo che scorreva in giorni all’apparenza sempre uguali, eppure con qualche minuteria a mutarne la sostanza.
Il Principe di Salina può non essere mai vissuto, il volume giunto inspiegabile tra le mani per addottrinarci su tempi esistiti che mai torneranno nell’avventura umana. Con il lungo diario apocrifo del Tomasi ne “L’albatro”- datato all’ultimo mese di vita, da ricoverato in una clinica di Roma per la malattia che lo spegnerà, cronaca perfetta di passioni, sentimenti, giudizi, valori, insomma tutto (tanto da far credere al lettore di essere un originale di sua mano) - si deve riconoscere alla Lo Iacono una speciale sapienza nel percepire questa inquietudine, sopita e a un tempo ben desta sotto la levità del quotidiano.
È la consapevolezza del volgere al tramonto di un’epoca, muovendo funestamente verso le tragedie della prima metà del XX secolo. Già! I prodromi infausti del fascismo e del nazismo - entrambi nel ’19 – ’20 – e il “breve” ventennio tra la fine del primo conflitto (1918) e lo scoppio del secondo (1939) con, a seguire, gli anni più vergognosi della storia umana che faranno dissolvere dalle fondamenta la vecchia Europa. Quella che, nel bene e nel male, ne aveva pur visto di tutti i colori.
Simona Lo Iacono (Siracusa, 1970) è una magistrata, già finalista al Premio Strega con un romanzo nel 2016. Da siciliana genuina, partendo da profonde e accurate ricerche sull’artista-protagonista-uomo Tomasi, suscita un rinnovato e vivo interesse verso gli affetti (la moglie Licy in primis, psicologa lettone), gli eventi e la vita del grande scrittore.
Di più, il merito di saper creare scene e situazioni che, pur immaginate, ben si inquadrano nella filosofia del tempo e del capolavoro tomasiano, arricchisce il lettore per via traversa su plausibili squarci di vita del bambino, poi giovane, poi uomo, che - crescendo sempre assieme al suo immaginario opposto, Antonno, l’
albatro fedele e inseparabile dal principe per l’intera vita – ci diventa ancor più familiare, quasi ci avesse accolto nella sua splendida villa (purtroppo distrutta dai bombardamenti) e tenuto ospiti segreti ma attenti a tutto quanto di magico scorreva sotto occhi stupefatti. Fa dire l’Autrice a Tomasi nelle ultime pagine del diario:
“
Flaccovio si dice certo del risultato. Vittorini è un siciliano, mi rassicura: non gli sfuggiranno certe malinconie e sensualità del testo. (…) Qualche mese prima di rivolgermi a lui, ho voluto man¬dare una copia del dattiloscritto anche a Elena Croce, la figlia di Benedetto, attraverso un comune amico, l’ingegnere Giorgio Giargia. Per prudenza, e forse anche per scaramanzia, ho con¬segnato lo scritto anonimo.
Ma anche da lì non ho ancora avuto alcuna risposta.
Insomma, quel gattopardo che ha ruggito così disperatamente in me, che mi ha forzato a tanta fretta, che ho ripesca¬to dalle profondità del mio essere, è rimasto improvvisamente rauco. Niente, neanche uno sbadiglio esce dalla sua bocca.
Nonostante questo ho continuato a scrivere.”
Purtroppo anche Vittorini rifiutò il libro con la motivazione: “
una seducente imitazione de I VICERÈ” (romanzo di Federico de Roberto del 1894). I “
grandi” sbagliano… umani dopotutto come gli altri!
Sarà solo l’ultima - la strada anonima - quella buona… ma a Giuseppe non verrà concesso di vederla…
Luigi Alviggi
Simona LO IACONO: L’ALBATRO
Neri Pozza, 2019 - pp. 224 – € 16,50