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Calcio
Bearzot, l’uomo con la pipa
campione del mondo
di Mimmo Carratelli
(da: Corriere dello Sport del 21.12.2020)
Sono dieci anni che non c’è più Enzo Bearzot. È venuto a mancare il 21 dicembre 2010 nella sua casa milanese di via Crivelli in zona Vigentina. Aveva 83 anni. Era nato ad Aiello del Friuli.

Ho avuto con lui una affettuosa amicizia. Lo invitai a Napoli e venne a parlare a “Il Mattino” nel novembre del 1997. Avevo scritto su di lui un lungo racconto in quattro puntate sul “Corriere dello sport” nel novembre del 1986.

Voglio ricordarlo con affetto, la sua immagine fissa nei miei occhi e nel mio cuore mentre, nella casa milanese, si lasciò raccontare aspirando il suo Borkum Riff dalla pipa e, su un tavolino, c’erano due bicchieri della buona uva dei colli orientali fra Gorizia e Gradisca, il “picolit”.

Enzo era un vecchio che ascoltava i dischi del jazz e fumava la pipa. Spese la sua vita sui campi di calcio e portò il ricordo di una sola umiliazione, un tunnel di Sivori. “Ma quello faceva col pallone cose che non si possono insegnare”. Enzo giocava mediano nel Torino e successe in un derby con la Juve.

Bearzot nacque in un paese di montagna del Friuli. “Siamo gente di contropiede. Chiusa, riservata, timida, abituata a difendersi, però sempre col lampo di una rivincita”.

Era scolpito con l‘accetta, alto, spigoloso e spiritato. E aveva un naso coraggioso da pugile. Le sue mani erano nervose e aveva un sorriso imbronciato, ma con gli squarci improvvisi di una risata felice e a scatti che gli disegnava rughe su tutto il volto. Era un uomo riservato e schivo che si aprì con pochi amici.

Vide e giocò tanto calcio che, quando smise, poté insegnarlo. A molti non piacque: scambiarono per arroganza la sua timidezza, per presunzione il suo lavorare in silenzio.

Era vecchio non perché avesse molti anni, ma perché la sua faccia era segnata dalla fatica, s’era indurita col tempo e i capelli diventarono radi, ed ebbe una fronte rugosa. Dei vecchi ebbe una dolcezza dentro al cuore che per pudore non mostrò mai.

Diceva: “Io ho bisogno della mia solitudine. Siamo fatti così in Friuli. Apparire non mi piace. E faccio cose semplici: strimpello l’organo, raccolgo francobolli e statuette”.

Mi raccontò del 1982. Tutta la stampa contro ad eccezione del “Guerin sportivo” di Italo Cucci e del “Tuttosport” di Pier Cesare Baretti.

Disse: “In Spagna soffrimmo. Nessuno ebbe fiducia in noi e combattemmo da soli. In Galizia faceva freddo. Fu salutare per prepararci e andammo più vigorosi di tutti nel caldo di Barcellona e Madrid.
Ci chiudemmo a riccio contro tutti e questo rafforzò il gruppo e la voglia di smentire quelli che ci davano addosso. Andammo alla partita contro gli argentini di un prestigiatore immenso, una banda di guerrieri con quel loro ragazzo dorato, il grande Diego. Ma ci andammo senza paura. Ci avessero battuti, non sarebbe stato un disonore.
Ci liberammo della paura di tornare a casa prima del tempo, come predissero che sarebbe accaduto. Con l’animo sgombro e un’allegria e una sicurezza che crebbero ogni giorno sorprendemmo tutti. L’orchestra suonò sino in fondo e fu una musica mondiale. Al dunque ci furono i tedeschi. Ma ormai avevamo fatto fuori il grande Brasile di Socrates, Falcao e Zico.
L’avevamo giocato alla nostra maniera, subendolo e infilandolo. Contro la Germania dissi ai ragazzi: ricordatevi che la velocità è più importante della potenza, e noi siamo più veloci di loro. Può darsi che vi riempiano di lividi, ma prima devono prendervi. Non ci presero
”.

Lasciato il calcio, tornò sui monti di Auronzo, poi andò al mare di Lignano per combattere gli acciacchi dell’età. Nella casa milanese disse: “Non c’è più allegria, la musica è finita e tutti ce ne andiamo, ma abbiamo fatto concerti magnifici”.

Sorrise, mise su un disco di jazz e fumò in pace la sua pipa.
21/12/2020
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