Cultura
Charlie Parker compie 100 anni
di Adriano Cisternino
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Il Mozart del jazz. O il Van Gogh della musica. Sono solo alcune delle definizioni coniate per Charlie “
Bird” Parker, che il prossimo 29 agosto avrebbe compiuto 100 anni. Lui ne ha vissuti (e male) solo 34 ma gli sono bastati per essere considerato uno dei geni della storia del jazz, al fianco di Louis Armstrong, Duke Ellington e Miles Davis. che però hanno vissuto molto più a lungo.
Donne, droga e (soprattutto) alcool lo hanno accompagnato, assieme alla musica, dall'adolescenza alla morte, attraverso una vita breve e illuminata quanto infelice e tormentata.
Nato a Kansas City in un momento in cui la città godeva di straordinari fermenti musicali, fu abbandonato a circa 10 anni dal padre, un guitto per spettacoli di Vaudeville. Lo avrebbe rivisto solo per il funerale (pugnalato a morte da una prostituta) nel 1940.
La madre gli comprò un sassofono usato per distrarlo un po' e perché lei, donna delle pulizie nell'ufficio telegrafico della Western Union, lavorava dalle undici di sera fino a notte inoltrata e non aveva molto tempo da dedicargli.
In giro per la città, solo e incontrollato, il ragazzo Charlie incontrò presto droghe e donne, oltre alla musica. A 15 anni sposò Rebecca Ruffin, quattro anni più di lui. A scuola dicevano che era intelligentissimo. Ma quando incontrò la musica piantò i libri per questa attrazione fatale.
Lester Young fu il suo primo idolo. Il jazz fu un richiamo istintivo, lui ne rivoluzionò i canoni, ne riscrisse la grammatica, ecco perché a partire da lui non fu più quello di prima.
Parker fu “l'uomo che reinventò la sintassi e la morfologia della musica jazz e ne deviò il corso”, parole di Arrigo Polillo, uno che – parafrasando le sue stesse parole – ha reinventato la cultura del jazz in Italia.
Dall'era dello swing al be-bop, il giovane Parker divenne subito il capofila di un gruppo di musicisti pronti a condividerne idee poco condivise dalla maggioranza. Come tutte le novità. I suoi acuti, le pause, i laceranti assolo, apparentemente sconnessi, rispondevano ad una precisa sintassi musicale, che però pochi all'epoca riuscivano a comprendere.
La sua era anche una musica di protesta, una sfida alla cultura e al potere bianco dominante in un'epoca in cui anche i musicisti neri dovevano entrare nei locali dalla porta di servizio.
Da Kansas City, dopo i primi, miseri ingaggi, Charlie si trasferì a Chicago, nascosto in un carro merci, e poi a New York dove per sopravvivere fece anche lo sguattero per sette dollari a settimana pur di ascoltare il pianoforte di Art Tatum, uno dei suoi idoli.
Non tardò a trovare i primi consensi e soprattutto incontrò Dizzy Gillespie col quale instaurò un sodalizio artistico immediato e duraturo basato sulla piena condivisione delle nuove idee ma anche punteggiato da momenti di gelosia verso un collega che riscuoteva di più, semplicemente perché equilibrato ed affidabile. Esattamente l'opposto di lui.
Arrivarono le prime registrazioni. Koko (1945) è a parere di molti il suo capolavoro, il suo nuovo “
credo” jazzistico.
Earl “
the father” Hines, che lo ebbe a lungo nella sua orchestra, capì subito che quel ragazzo col sassofono aveva qualcosa di speciale rispetto agli altri, e gli perdonava peccati di indisciplina: Charlie arrivava in ritardo alle prove, o magari si presentava già stordito da alcool o droghe.
Hines lo multò spesso ma non lo licenziò mai. Fu lui ad andarsene quando gli proposero un ingaggio in California dove rimase alcuni anni realizzando cose splendide ma combinandone anche di tutti i colori.
La dipendenza dalla droga lo rendeva irascibile, intrattabile e naturalmente inaffidabile, pronto a tradire anche chi gli offriva amicizia. Trovò un po' di equilibrio solo quando conobbe “
Moose the Mooche”, uno spacciatore appassionato di jazz che in realtà si chiamava Emry Byrd e ufficialmente faceva il lustrascarpe. A lui, oltre che buona parte dei guadagni, Parker dedicò un pezzo dal titolo omonimo.
Agli appuntamenti in sala di registrazione la casa discografica convocava anche uno psichiatra che gli fosse di aiuto, e magari un sassofonista di rincalzo per eventuali e non improbabili defezioni senza preavviso.
L'incisione di “
Lover Man” del '46, raccontata drammaticamente da un giornalista, divenne famosa per le condizioni pietose in cui Parker suonò e il suono del sax documenta tutto il suo tragico tormento.
Dopo l'incisione fu accompagnato in albergo dove durante la notte si presentò nudo urlando nella hall e, riaccompagnato in camera, diede fuoco al letto. Fu sedato con un manganello e portato in carcere dalla polizia. Quindi internato nella clinica psichiatrica di Camarillo dove rimase sei mesi durante i quali compose il celebre brano “
Relaxin' at Camarillo”, tra i suoi capolavori. Anni dopo rinnegò quella incisione di “Lover man” e volle registrarla di nuovo in condizioni normali. O quasi. Tecnicamente tutta un'altra cosa. Ma non ha il pathos della prima.
“
Intelligenza superiore con tendenze paranoiche e una personalità schizofrenica”, questa la diagnosi degli psichiatri sull'artista che intrecciò disinvoltamente una conversazione con Albert Einstein incontrato per caso in una via di Princeton dove insegnava il celebre fisico.
Al ritorno a New York, nel 1949, si esibì spesso in un locale di Broadway intitolato in suo onore “
Birdland”, dal quale però talvolta fu persino cacciato perché semplicemente impresentabile. I biografi raccontano che ci fu chi lo vide addirittura tendere la mano per le vie di Manhattan. Tentò anche il suicidio con la tintura di iodio e aspirine. In ospedale riuscirono a salvarlo: intelligenza superiore con turbe paranoiche, sempre uguale il referto dei medici.
Due volte sorvolò l'Atlantico preceduto da grande fama. A Parigi era attesissimo, ma una sera, all'ora del concerto, sala piena di attese, e lui era già sul volo di ritorno per New York.
Nel 1953, alla Massey Hall di Toronto il suo ultimo capolavoro, in un autentico “star-group” con Dizzy Gillespie, Bud Powell, Charles Mingus e Max Roach. Per ragioni contrattuali Parker era sotto il nome della moglie, Chan. Suonarono davanti a pochi intimi perché quella sera in tivù c'era il mondiale dei pesi massimi di pugilato tra Rocky Marciano e Joe Walcott (vinse Marciano per ko al 13° round).
Per fortuna ci pensò Mingus a registrare quello che sarebbe diventato uno dei concerti più prestigiosi della storia del jazz.
L'ultimo rifugio in casa della baronessa Pannonica de Koenigswarter, grande amica e protettrice dei jazzisti, che tentò inutilmente di salvarlo. Morì il 12 marzo 1955 davanti al televisore mentre assisteva ad un programma di Tommy Dorsey e l'ulcera gli incendiava lo stomaco e la cirrosi gli tormentava il fegato. Il medico che stilò il referto scrisse “
...un uomo di età apparente di 60 anni...” Ne aveva 34.
Ai funerali, tra una folla enorme, soprattutto di musicisti, si presentarono due donne, Chan Richardson, la sua ultima moglie dalla quale aveva avuto anche due figli, e Geraldine Scott, la precedente, dalla quale non aveva mai divorziato.
Pochi giorni dopo fu organizzato un concerto alla Carnagie Hall per aiutare la famiglia. Sì, ma quale?
Romanzi, numerose biografie e lavori teatrali si sono ispirati alla vita di Charlie Parker.
La sua storia è stata anche raccontata da Clint Eastwood nel film “
Bird” del 1988.