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Cultura
I Monti Lattari fra storia e fantasia
di Franco Polichetti
Il sacrificio di Pompei, la Pompei osco-sarrasta, etrusca, sannita, la Pompei autonomista che ha difesa strenuamente la sua indipendenza, schierandosi con gli italici nella “guerra sociale”.

Guerra sociale si chiamò la rivolta degli italici contro Roma finalizzata all’ottenimento del riconoscimento dei diritti civili cioè la parità con i cittadini romani.

Resistendo al duro assedio posto dal dittatore Lucio Cornelio Silla la guerra si concluse nell’89 a.C.; ma solo nell’80 a. C. Pompei, lasciata in una condizione incerta e di interregno dal dittatore, che nel frattempo dovette correre in Asia per fronteggiare la rivolta di Mitridate, fu trasformata, con l’arrivo del nipote, il giovane Publio Cornelio Silla, in colonia romana assumendo il nome di “Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum”.

La deduzione della colonia compiuta da Publio Cornelio fu dura; un’operazione condotta all’insegna della vendetta e di una giustizia sommaria dei capi della rivolta, di invio in esilio e di confisca dei beni delle maggiori famiglie pompeiane assegnati ai veterani di Silla.

Tito, giovane sarrasto, vi aveva partecipato attivamente come uno dei capi e quindi ha dovuto scappare, ma non presso i familiari di origine ancora residenti sulle rive del Sarno, perché luogo poco sicuro, ma sui Lattari per evitare che i gerarchi di Silla lo catturassero e lo giustiziassero.

Ma adesso sull’orizzonte della propria coscienza campeggia l’immagine della mamma lasciata sola nella Pompei ormai espugnata dai romani. Che cosa sarà della mamma: Uccisa? Fuggiasca? Schiava dei vincitori? Questi tremendi dubbi lo tormentano.

Al mandriano che lo ospita nella sua misera capanna esprime l’intenzione di voler ritornare a Pompei in cerca di notizie sulla mamma. Ma il pastore, dotato di quel buonsenso popolano, amorevolmente lo sconsiglia: “vanum impendis opus” tentativo sterile e pieno di rischi gli dice: “Cave tibi”, preoccupati di te!

Sul tuo capo infatti pende una vistosa taglia pecuniaria. Meritoria sarà giudicata qualsiasi violenza compiuta su di te. Le spie otterranno premi e i sicari sostanziose remunerazioni.

Guarda la tua vita non la gettare inutilmente. Tito scrolla le spalle ed esclama: "Ma che vita è questa? Voglio rintracciare mia madre!". 

Il pastore si convince che sarebbe stato inutile dissuaderlo e quindi gli suggerisce che almeno si travesta.

Da plebeo sconosciuto gli dice, e non da patrizio condannato in contumacia, forse potrai più facilmente raccogliere qualche confidenza sulla sorte di tua madre.

Tito si persuade e il mandriano, soddisfatto, corre nella parte più remota della sua spelonca e ritorna recando fra le braccia un cumulo di pelli pecorine con cui Tito, sia pure a malincuore, compie il suo travestimento.

Non più un agiato patrizio, proprietario di terre e di una splendida domus, né l’eroico, estremo difensore delle mura civiche, bensì un autentico pastore, sceso dai boscosi Monti Lattari in cerca della sua buona padrona, dispersa nel turbine della guerra.

Si mescola fra i contadini del suburbio, fra i marinai del porto fra i commercianti coi quali la propria famiglia ha avuto rapporti di affari.

Dovunque lo strano pastore chiede. “Ubi est domina mea”, dov’è la mia padrona? Dovunque silenzio… Reticenza? Sospetto? Oppure davvero nessuno sa niente?.

Scoraggiato sta quasi per rinunciarvi, quando nel mercato dei commestibili, adocchia una giovane donna sui venti anni, accovacciata per terra. Una grossa anfora di terracotta colma di latte sta dinanzi ad essa.

Un dubbio lo assale: non è forse quella pastorella che dalla lontana Pimonte veniva a portare il latte ai pompeiani anche durante la guerra? Le rivolge qualche domanda cui la piccola montanara risponde con estrema esitazione perché non conosce quel giovane.

Tito intuisce si strappa da dosso alcune pelli ed appare il suo volto maschio. La montanara getta un grido di sorpresa, Tito le afferra le braccia e ansiosamente le chiede: "L’hai vista mia madre? Dove si trova?". 

E l’affabile pastorella racconta di averla incontrata lungo la strada costiera che mena verso Stabia, terrorizzata, come prima cosa le aveva chiesto notizie del figlio ma lei non aveva potuto accontentarla perché nulla sapeva.

E poi aggiunge. l’ho ospitata per alcuni giorni nel mio umile casolare di Pimonte ma poi lei temendo di attirare anche contro di me la vendetta dei vincitori volle andare via. Mi disse che voleva rifugiarsi nel punto più alto di questi monti in qualche casetta sperduta.

Come folgorato Tito salutò l’affabile ragazza e si inerpicò su per quel monte fra fitte boscaglie di querce e di castagni tra inestricabili cespugli di rovi e di ginestre puntando su Agerola.

Dopo varie ore di faticose arrampicate raggiunge l’ardua vetta. La grandiosità del panorama lo stupisce.

Per la prima volta vede a nordest l’ubertosa valle del Sarno ed il sinuoso fiume che l’attraversa come un nastro argenteo.

Poi rivolgendo lo sguardo verso Sud nel lontano orizzonte scorge la meraviglia del golfo di Salerno e la pianura alluvionale tagliata dalla lama del fiume Sele, sfociante verso il vetusto tempio di Hera.

Poco oltre l’opulenta Paestum ostentante la bellezza dei suoi dorici templi. Ed ancora più lontano i monti del Cilento ai cui piedi, malinconicamente sfiorisce, la magnagreca Elea, patria delle glorie filosofiche di Senofane, Parmenide e Zenone, coi quali il pensiero umano ha raggiunto le vette più alte della speculazione prima del divino Platone.

Tito intraprende la discesa lungo un burrone che conduce verso Furore e presso questo piccolo fiume, alimentato dalla sorgente che prorompe dalla roccia s’imbatte in alcune donne che dall’altopiano erano quivi giunte con le anfore per attingere l’acqua.

Tito s’intrattiene un momento ad osservarle, nascosto fra la boscaglia e ad ascoltarle; incuriosito dal loro linguaggio che ha strane inflessioni fonetiche, ma poi appare coni suoi indumenti di pelle squarciati che lasciano intravedere le ferite ancora cruenti e non rimarginate della recente battaglia.

Improvvisamente colte dal panico quasi tutte le donne fuggono e si disperdono gridando.
L’unica a non provare sgomento è una giovanetta, forse sui sedici anni, che vedendolo così madido di sudore, con gesto cortese gli porge l’anfora colma di acqua.

Tito prontamente accosta il bordo dell’anfora alle arse labbra e beve a lungo avidamente.

La giovinetta non osa chiedere allo strano giovane chi sia ma piuttosto pensa a quale aiuto potergli dare.

Tito leggendo negli occhi di quella ragazza una dolce bontà le chiede perché le sue compagne abbiano avuto tanta paura, e la ragazza risponde che credevano che egli fosse uno dei malvagi che hanno fatto scempio delle belle città della regione.

Tito risponde che anche lui è stato a combattere ma come uno degli ultimi difensori di Pompei.

A che la ragazza soggiunge che la notizia del martirio di Pompei era giunta fin lassù anzi, alcuni mesi fa, una signora profuga dalla sua patria, avendo persi marito e figli, nelle battaglie in riva a Sarno, si è rifugiata fra loro.

Tito spalanca gli occhi e chiede come si chiama questa signora di Pompei. La fanciulla risponde che non lo sa e sa solo che è immersa nel dolore ed è schiva di ogni compagnia. Vive lassù indicandola col dito una rustica casetta a mezza costa.

Tito non ascolta altro ringrazia la ragazza e si precipita nella direzione indicata.


7/1/2020
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