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Recensioni
L’ora di Agathe
di Luigi Alviggi
Siamo in un piccolo centro francese negli anni 40 del secolo scorso, al termine dell’attività professionale di un anziano psicanalista che conta ossessivamente i giorni, meglio, onore alla professione, le ore di seduta (allora: oggi sono sui 40, 45 minuti!). Sono all’incirca 800 a dividerlo dal traguardo più atteso: la sospirata pensione, e ogni giorno scandisce il conto alla rovescia.

Non tante ma, si sa, la coda è sempre la più ostica a digerirsi. È un uomo solo, senza amici, che ha iniziato la carriera traboccante di entusiasmo giovanile e che man mano, influenzato dalle miserie dei pazienti sdraiati sul lettino, ha ceduto, dimenticando di fare la cosa più importante nella vita, una seria analisi di se stesso.

Nel suo caso una mancanza disastrosa. Il diversivo serale è ascoltare il suono del pianoforte del vicino, anche lui solo, che gli giunge attraverso la parete.

Un uomo che afferma “non parlavo con un bambino dal tempo in cui lo ero anch’io”, che tipo può essere? Adesso, dopo mezzo secolo di attività in posizione rigorosamente freudiana, sprofondato in una poltrona alle spalle del paziente, ascolta i monologhi di soggetti che vogliono aprirsi, ma non sanno in cerca di che.

Sono, in genere, vite segnate dalla solitudine, sociale o mentale, che si illudono che chi li assiste riesca a trovare il bandolo della matassa e glielo porga perché finalmente possano ritessere l’impianto della propria vita.

In realtà l’ascolto è saltuario. Sul libretto degli appunti - ove una volta annotava diligente i punti salienti della confessione in corso – oggi si limita, è figlio di un pittore, a disegnare uccelli mentre la mente irrequieta vaga anch’essa alla ricerca dell’indefinito.

Tra poco ne scoverà uno in casa di molti anni addietro e penserà:
mi prese un po’ di rimpianto al pensiero di quel me stesso più giovane, intento a riflettere su come migliorare nella sua professione. Passai l'indice su quei trat¬ti meticolosamente impressi sulla carta: la scrittura era identica, l'uomo era diventato un altro mentre ero distratto.

Oggi invece (ah, l’esperienza!):
Anni di allenamento mi avevano inse¬gnato a bofonchiare al momento giusto qua¬si senza ascoltare; nei giorni fortunati non mi restava dentro una sola parola dopo il congedo.

Il male di vivere lo ha irrimediabilmente contagiato e attende il prossimo cambiamento messianico che lo trasporti verso lidi diversi senza accorgersi che il futuro, allo stato delle cose, si presenta ancor più nebuloso del passato.

Ma una sorpresa arriva: una giovane tedesca, pur sapendo che l’attività cesserà a breve, insiste con la fedele segretaria, Madame Surrugue, perché la prenda in carico come paziente. Vista la situazione, lui è ben lontano dal concederlo.

Anche l’incontro con lei, venuta apposta allo studio, lo mantiene fermo. Poi se la ritrova nella lista degli appuntamenti per grazia della Surrugue: e lei è Agathe. Deve rassegnarsi.

Non si rivela una paziente straordinaria, ha solo perso la voglia di vivere come la maggior parte di chi si rivolge a un analista. Piange spesso e ha violenti attacchi di rabbia ma, presaga della brevità di tempo, apre velocemente l’interno dando un’impetuosa sferzata alla fiacca attenzione del vecchio.

Ha avuto un padre cieco che, nonostante questo, sapeva aggiustare di tutto, persino gli orologi. Un’assurdità. L’impressione emergente è che sia una donna triste, già con un tentato suicidio alle spalle.

Del marito, Julian, non parla, non hanno figli. Ma è la paura che lei ha nei confronti di tutto, il terrore di fallire, che funzionerà da grimaldello per la cassaforte dell’uomo, forse da lui mai aperta prima. E parole del tipo:
Credo che la vita sia troppo breve e troppo lunga nello stesso tempo. Troppo breve per imparare a vivere. Troppo lunga perché la decadenza si fa solo più visibile ogni giorno che passa.

e ancora:
Ma dottore, come può passare l'esistenza ad alleviare il dolore de¬gli altri, se non ha consapevolezza del suo?
fanno vacillare il medico, pur fermamente seduto in poltrona.

Come che sia, il suo rifiuto iniziale comincia a trasformarsi in piccola simpatia, poi in tenerezza... e intanto un’ansia immotivata inizia a gonfiargli l’interno.

Il libro si inanella intorno alle successive sedute di Agathe. Lo stile è pacato, il contenuto corposo e preciso, scolpisce la situazione, e noi diveniamo presenze silenziose e attente nello studio del dottore.

La Bomann è una giovane scrittrice e poetessa danese, anche più volte campionessa nazionale di ping-pong, ma, ciò che più interessa qui, è anche psicologa, e la mano dell’arte si sente in questo lavoro in vari passaggi, non essenziali ma certo arricchiti da chi ben esercita la stessa professione del protagonista.

Il marito della Surrugue è malato e lei, dopo 35 anni, è costretta ad assentarsi non per poco. La coda tira fuori un pungiglione che peggiora la condizione dello sfinito anziano. A parte i pazienti, nel suo esiguo spazio di vita la donna costituiva una figura essenziale.

Una ragione in più per concentrarsi su Agathe? Nei ricoveri ospedalieri è passata attraverso elettroshock e terapie intensive ma è rimasta indenne. Ora alla simpatia si affianca una specie di ammirazione, dimostra di essere più forte di lui! Le parole del terapeuta in lei non cadono nel nulla come accade per tanti altri clienti, ma è disperata. E lui riflette e dice, in una successiva seduta:
La disperazione formava una specie di foschia densa tra di noi, mi sembrava quasi di vederla. Mi spostai verso il bordo della poltrona per trattenerla: «Non è vero, non è troppo tardi. Io credo che la vita consista in una lunga serie di scelte che siamo costret¬ti a fare. È solo se rifiutiamo di assumerci questa responsabilità che tutto diventa in¬differente.»

Un giorno per caso la scorge in un caffè: ride insieme con amiche. Si immagina al posto delle amiche e la sua vita gli mostra un volto diverso, del tutto inaspettato. Quando esce la segue fino a casa, con in mano due borse pesanti della spesa pur avendo le ginocchia sofferenti! Le parti sono invertite: chi è il paziente, Agathe o lui?

Il mutamento della prospettiva lo spinge verso il vicino, scoprendo che è sordomuto, suona dunque a orecchio. Ritrova la commozione e, per lui, arriverà a preparare una torta che gli porterà in dono ma fermandosi alla porta di casa dell’altro.

La Surrugue ritorna per dirgli che il marito sta morendo e lei è distrutta. Tra i coniugi c’è un lacerante silenzio e gli chiede una visita a casa. Lui non sa negare e, incerto, promette, ma pensa: “Era passato così tanto tempo dall'ultima volta che avevo avuto una conversazione normale con qual¬cuno che stavo male a pensarci.” e poi: “Si può aiutare uno sconosciuto a morire bene, se non si riesce neppure a vivere la propria vita?”.

L’autoanalisi inizia a diventare onerosa. L’uomo si sente rovesciato come un guanto e di fronte ai pensieri diversi, alle visioni diverse, alle valutazioni diverse, non può che smarrirsi. È un coltello che rigira dentro dolorosamente e, perso tra i pesanti problemi dei pazienti prima, riflette ora che deve farsi forza e impugnarne il manico.

La visita a Thomas, il marito, spande un benefico effetto ancor prima di cominciare. Vede in lui il terrore di lasciare la moglie, della morte, e pensa alla sua. Non crede di poterlo aiutare, lui che non ha mai amato nessuno.

Ma l’uomo è profondo e le domande che gli pone aiutano: le risposte che gli dà serviranno più a se stesso che al malato terminale. Il colloquio avuto si rivela tanto importante che ritornerà, a distanza di pochi giorni pur senza riuscire a parlarci, ma sarà contento già delle parole con la Surrugue.

Il libro, pur breve, è denso, costituendo un potente affondo nell’animo umano. Dello psicanalista innanzitutto, che poco si era indagato nello specchio delle migliaia di pazienti del mezzo secolo precedente e solo ora, alle soglie dell’abbandono, prima in Agathe e poi nella condizione di Thomas, capisce più su se stesso di quanto abbia compreso fin’allora:
Presto sarebbe tutto finito, e poi? Avevo fatto davvero tutto quanto era in mio potere per aiutarli?

E l’affondo viene anche nella rassegna dei pazienti, diversi dei quali seguiti durante le sedute, permettendo di osservare lungo quante strade sia facile perdersi all’intervenire di difficili situazioni di vita.

Agathe e Thomas sono complementari. Due spazi ignoti e diversi vanno a integrarsi nell’esigua dimensione di vita del medico per ampliarla e fargli abbandonare l’involucro, un esoscheletro da mutare per trasferirsi in uno nuovo di zecca, di maggiori dimensioni.

Una rinascita impensabile e perciò tanto più devastante ma anche salutare perché lo schiude a una differente prospettiva, a nuova vita. La metamorfosi si compie e si manifesta in vari aspetti. Inizia a diventare più impositivo con i pazienti, esortandoli a provare quello che mai hanno fatto.

Un cammino pericoloso che non si era sentito di affrontare. Poi una sera, finite le sedute, muove a piedi verso casa di Agathe. Non c’è, vede solo il marito all’interno e dentro gli monta la rabbia. Cos’è che prova? amore? Non lo sa, forse. È difficile comprendere un sentimento quando è la prima volta che lo si incontra nel corso dei giorni.

Non sveliamo le sorprese finali solo, una volta che lei avrà vuotato il proprio sacco con enorme sollievo, il saggio viatico che l’esperto analista suggerisce per il futuro:
Significa che deve imparare a guardare se stessa, Agathe.

Luigi Alviggi

Anne Cathrine Bomann: L’ora di Agathe
traduzione di Maria Valeria D’Avino
Iperborea, 2019 – pp. 160 - € 15,00
24/3/2019
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