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Calcio
Carlo l’Emiliano e la Juve cronaca di 27 battaglie
di Mimmo Carratelli (da: Corriere dello Sport del 01.03.2019)
Carlo Ancelotti di Reggiolo, territorio di acque pescose e colline di culatello, condottiero in 1.066 battaglie, leader calmo e illuminato, combattente dall’ira elegantemente repressa, uomo equilibrato nonostante il disequilibrio dei sopraccigli, ha guidato i suoi svariati eserciti di Parma, Torino, Milano, Londra, Parigi, Madrid, Monaco di Baviera e Napoli contro innumerevoli nemici battendoli 630 volte, concedendogli l’onore di 242 pareggi e momentaneamente sconfitto sul campo 194 volte.

Il valoroso Carlo di Reggiolo, avendo concluso vittoriosamente 20 campagne di pallone, impossessandosi di altrettanti memorabili trofei, si colloca dopo le 48 conquiste di Napoleone e subito dopo le 21 conquiste di Giulio Cesare, successi sommariamente considerati da un conteggio storico approssimativo. Tanto per dare l’idea della figura trionfante di Carlo l’Emiliano che vince col peso dei lombi appenninici e della tattica pugno di plastica in guanto di seta.

A cavallo di questo secolo, il soggiorno fra il Po e la Mole Antonelliana alla testa delle truppe bianconere, con rivolte plebee e insolenze da macelleria, segnò una tappa infelice di Carlo il Buono che più non se ne rabbuia e, con lo stile al tortellino che lo distingue, se ne ricorda con un distacco serenamente vindice.

Il lontano, deplorevole passaggio nella città dei motori a pistoni e dell’egemonia zebrata stuzzica la curiosità dei cronisti partenopei di questi tempi e fors’anche un regal prurito in Carlo il Navigatore alla vigilia del prossimo confronto con l’armata juventina, ora che Egli è alla testa delle truppe napoletane.

I contabili delle guerre di pallone annotano che Carlo il Conquistatore ha sfidato 27 volte l’esercito torinese a strisce riportando 6 vittorie e 9 sconfitte, più 12 pareggi. La contesa iniziò quand’era condottiero a Parma.

Nel 1996, anno in cui fiorì l’Ulivo di Prodi e la penisola appassì sotto il gelo del vento Burian che soffiò dalla pianura russa, Carlo era al comando di un valoroso contingente ducale in cui spiccavano Lilian Thuram, uomo solido della Guadalupa, il marine napoletano Fabio Cannavaro, il polivalente argentino Nestor Sensini, il suo acrobatico connazionale Hernan Crespo, il genovese d’assalto Enrico Chiesa e il guardiano del castello Gianluigi Buffon, diciottenne esagerato di Carrara.

Con questo manipolo, in due anni, Carlo l’Invitto resistette all’armata juventina campione d’Italia vincendo uno scontro e pareggiandone tre.

Attratto a Milano dall’emergente Cavaliere di Arcore, principe azzurro d’Italia, principe rosa in alcove affollate e principe coinvolto in venti procedimenti giudiziari, Carlo il Solido ne resse il confronto sul piano strategico superando la diatriba dell’impiego discusso e discutibile di due oppure un solo guerriero assaltatore. Il Cavaliere aveva 65 anni, Carlo 42.

È stato nel primo anno di questo ventunesimo secolo, tra i funerali della lira e il battesimo dell’euro, che Carlo il Nostalgico tornò nell’accampamento rossonero dove aveva generosamente combattuto per un lustro, fante geniale di centrocampo.

Era, per chiarire, il 2001. Da soldato milanista trasse napoleonicamente dalla giberna il bastone di maresciallo e guidò per otto anni lo squadrone del presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, aiutante di campo il monaco di Monza Adriano Galliani dalle antenne dritte.

Nel periodo milanista, 18 furono gli scontri con l’esercito juventino che dominò la scena italiana prima di cedere il campo a Calciopoli e all’Inter. Carlo il Glorioso combatté con onore. Vinse 4 volte, 7 volte soccombé, 7 volte chiuse alla pari.

Condusse le prime dieci battaglie contro Marcello Lippi (3 vittorie, 3 pareggi, 4 sconfitte), bell’uomo di Viareggio, dalla vaga somiglianza con un attore hollywoodiano, fumatore di sigari e comandante in capo delle truppe bianconere che potevano contare su mercenari di grande talento acquistati a peso d’oro, 75 miliardi di lire per arruolare la sentinella Buffon e 70 per il guadalupense Thuram, che erano stati agli ordini di Carlo ai tempi ducali, 75 miliardi per il bersagliere biondo della Repubblica ceca Pavel Nedved, 75 miliardi per il guastatore francese di Rouen David Trezeguet, 9,4 miliardi per l’esule napoletano Ciro Ferrara, 5 miliardi per il panterone uruguayano Zalayeta.

Se il Cavaliere di Arcore poteva essere considerato un padrone delle ferriere (e delle televisioni), centosettantasettesimo uomo più ricco al mondo, le ferriere erano la Juventus, tanto cospicuo e inimitabile era il forziere bianconero.

Carlo l’Ardimentoso andò all’assalto dell’esercito juventino con uomini di valore tra i quali spiccavano il sabotatore piacentino Pippoinzaghi, l’artigliere ucraino Shevchenko, il geniere bresciano Andrea Pirlo, l’emigrante calabrese Gennaro Gattuso intinto nel nero di seppia, e le ex reclute ormai veterani Ambrosini, Paolo Maldini, Costacurta e Demetrio Albertini, il meglio dell’italica gente, cui si aggiunsero nel tempo il possente sergente del Suriname Clarence Seedorf, Cafu e Kaka della migliore fanteria leggera brasiliana.

L’impresa memorabile di Carlo il Rigoroso di quei tempi rossoneri fu la battaglia di Manchester dove piegò l’esercito torinese di Lippi nel torneo medioevale dal dischetto conquistando il trofeo della Lega dei Campioni, il massimo alloro europeo.

Quando Fabio Capello, la più famosa e quadrata mascella dell’Isonzo, friulano scolpito nella pietra carsica, divenne il comandante juventino, Carlo il Temporeggiatore vinse una battaglia, una la perse e due le pareggiò.

Affrontò successivamente le truppe bianconere di Claudio Ranieri, bel generale dal volto di antico romano della gens claudia, che non riuscì a battere in quattro scontri, due sconfitte e due pareggi.

Carlo l’Europeo lasciò l’Italia e andò a combattere in tutte le grandi città del continente finché approdò a Madrid e di nuovo ebbe di fronte la truppa bianconera.

Era l’anno 2013. Nel Bel Paese spuntarono Cinque Stelle, cadde il Cavaliere di Arcore, si issò Matteo Renzi, piacente giovanotto fiorentino, e niente fu più come prima. Marco Mengoni, nato tra i monti viterbesi di Ronciglione, cantò “mentre il mondo cade a pezzi io compongo nuovi spazi e desideri” e gli bastò per vincere a Sanremo, nelle sale si proiettò “La grande bellezza” del riccioluto napoletano del Vomero Paolo Sorrentino.

Le truppe bianconere, tra le quali giganteggiavano il pisano all’uscio Giorgio Chiellini e l’arciere della Guinea Paul Pogba, erano all’inizio della loro squassante campagna d’Italia guidate dallo sciamano pugliese Antonio Conte di capigliatura misteriosa, posseduto dal demone della gloria.

1/3/2019
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