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Recensioni
Il tram di Natale
di Luigi Alviggi
Un’odissea umana si ripete ogni sera sul tram numero 14, buio all’interno per assecondare il riposo di passeggeri distrutti dalla fatica. Sferraglia verso l’estrema periferia della grande città.

In una vigilia di Natale è partito deserto dal capolinea e qualcuno ne ha approfittato per ancorare una coperta all’ultimo sedile della fila con dentro un neonato, anch’egli scuro come la notte.

Un’epifania accorata e inattesa riporta all’infanzia, densa di sogni onnipotenti, una fauna variegata accolta in un presepe affatto lucente, illuminato a tratti solo dal chiarore delle lampade stradali incrociate lungo la corsa, fuggenti anch’esse all’indietro in un cammino illusorio verso un passato che non può ritornare.

Si alternano passeggeri accomunati da uno stesso fattore: trovarsi ai margini estremi della società. Salgono storditi e in fuga anche da se stessi persone snaturate dalla miseria e dai pesanti insulti della vita.

Tribolano per venire a capo di ogni giornata e, cosa peggiore, non intravedono barlumi di luce, pur lontani, che possano illuderli di un riscatto dai troppi giorni invivibili accumulati, uno identico all’altro, nelle macerie del soffocante passato.

Una prosa felice, pittorica direi, capace di descrivere a parole dettagli che solo uno sguardo attento riesce a cogliere nelle mille cose che passano ogni giorno sotto gli occhi.

È la lente d’ingrandimento di un’attenzione speciale che si applica ai singoli e, penetrandoli, fa comprendere quanto superficiale sia il nostro muovere quotidiano in un mondo che sfioriamo appena nell’aspetto più esterno e insignificante.

Indaga l’Autore sul poco che ancora tiene i personaggi ancorati alla vita. Quadri di povera gente che si trascina appresso, nel sacco legato al bastone poggiato sulla spalla come una volta i pellegrini, l’indispensabile per vivere.

Ecco l’ambulante che porta appesi alle braccia gli ombrelli invenduti per la magra bella giornata. Ecco l’immacolata giacca bianca dai bottoni dorati, ossessione della datrice di lavoro, del cameriere filippino, contaminata da una macchia di caffè per l’incauta immersione in una tazza mentre lo versava nel servizio buono da portare in sala da pranzo.

Giacca che la moglie riassesterà - è a rischio il posto di lavoro - e che, almeno ora, potrà mostrare con orgoglio al figlio, bravo a scuola, mentre lui ancora sillaba la lingua del paese ospitante.

C’è William, ragazzo nero, solo e abbandonato anche lui, che vive al limite estremo della città dove non arrivano mezzi pubblici, e perciò costretto a camminare a lungo per arrivare al rudere fatiscente che assicura un misero tetto a lui e suoi simili, tutti prostrati da indifferenza, offese, soprusi, dalla

sensazione di essere diventati vecchi, (...) inutili, adolescenti che come lui crollavano sfiniti sui materassi recuperati dalle discariche a cielo aperto

Per lui il tarlo è il coniglio, col quale divideva una carota la sera e dormiva abbracciato, che i compagni di tugurio hanno arrostito per fame durante la sua assenza.

C’è il misero anziano che, come tanti “galanti d’immaginazione e fragili di desiderio”, ha accanto un amore mercenario, giovane di colore ancora più povera, che gli si concederà per fame all’infimo prezzo di un pasto preparato da lui.

Anche un mago, una volta di successo, si affaccia nel tram. Ha vissuto giorni migliori ma ora ha dovuto ripiegare su se stesso, svampito dall’Alzheimer, finendo senza scampo fuori carreggiata.

È il declino cerebrale ad aver accompagnato il tramonto progressivo dalle scene mentre lui, offuscato, “continuava a raccontarsi la maledizione delle sue mani che gli avevano sottratto il destino”.

Una volta dentro anch’egli si avvicina al gruppetto di persone in fondo alla vettura e la piccola creatura, quasi indistinta, gli schiarisce la mente per un’ultima volta.

Una figlia, incinta di un ragazzo senza arte né parte, è andata a vivere con lui contro la volontà della madre per ritrovarsi, con la bambina, in un oscuro sottoscala capace di uccidere il più grande degli amori nella spietata disperazione:

La figlia si era accorta di non sopportare più la superficialità senza progetto del ragazzo, quel gal¬leggiare giorno per giorno su un mare di espedien¬ti, di prestiti, delle regalie di parenti e amici. An¬che con qualche furto semplice, di pochi spiccio¬li, che l'aveva messa in allarme confermando l'a¬cida preveggenza della madre. (...) I vecchi sanno, per cinismo, quanto sia di cristallo il cuore dei giovani: al primo urto va in frantumi.

È il compagno a finire sul tram: è successo l’incredibile. Ha perso i cinque euro che la suocera, in un singolare sussulto di pena nel mare grande del disprezzo che la possiede verso quell’unione, aveva regalato alla figlia, e sui quali avevano fondato, alla men peggio, i sogni della cena di Natale.

Li troverà proprio lì, sotto il sedile del bambino, dopo averli cercati tutto il pomeriggio, e sarà l’ultima illusione di vittoria in una realtà che, oppressa dalle meschinità, agogna soltanto a uscire da dimensioni repellenti.

Per l’infermiera, deus ex machina, accudente un’anziana amante di Dickens prossima all’aldilà - per lei “lo scrittore che più di tutti sapeva cogliere la difficoltà di stare al mondo” -, è la spinta a tornare ogni mattina dall’invalida “come fosse lei quella bisognosa di cure e attenzione”.

Sa raccontare della madre del neonato al gruppetto di persone che circonda il seggio della natività al quale il bimbo è avvinto dalla coperta: una giovane nera più disgraziata del figlio, solita stazionare sotto la pensilina del capolinea del tram insieme con una vecchia puzzolente e cenciosa che pare averla adottata.

La soccorre nelle fitte di dolore e a volte la veste di suoi vecchi abiti, capace anche di prendere forbici e ago per adattarli e farla sfilare poi sotto quel riparo di fortuna quasi fosse una passerella di moda.

Si comporta da mamma fittizia che, a figlia partorita, deve essersi liberata del piccolo approfittando dello sfinimento della puerpera.

Giosuè Calaciura, palermitano, ha scritto molti libri e racconti. Nel suo primo romanzo “Malacarne”, del 1998, c’è la mafia, un assassino, un giudice, e una città che fa da sfondo partecipe.

La citazione del superbo “Canto di Natale” (1843) di Charles Dickens (1812-1870), in esergo, è la corretta premessa alla narrazione. In quest’opera protagonista è il ricchissimo e avarissimo Scrooge: in inglese “zio Paperone” (Disney) è appunto “uncle Scrooge”.

Egli diviene preda di tre fantasmi dei suoi Natali, uno passato, uno presente e uno futuro. Attraverso la visione di essi - di quello che è stato, di quello che è prossimo a essere, e di quello che sarà - riesce finalmente a comprendere la falsità della vita che sta conducendo e arriva a redimersi.

Nel libro Calaciura si limita a un presente devastante, esibendo una rassegna di “ultimi” che vengono travolti dalla corrente furiosa senza possibilità di reagire, alle prese soltanto con la fatica di stare al mondo.

Il racconto scorre limpido, traboccante di tristezza, replicando echi di passati individuali, immagini che si affacciano ripetute nella mente di ciascuno dei poveracci.

La pietà delle persone minori si aggrappa alla memoria di piccole cose, a misura delle menti che occupa, e noi - come è di ogni eco – lo sentiamo risuonare nel profondo anche se viene da un mondo remoto, per fortuna della maggior parte di noi, e appartenente solo alla coscienza di sventurati che riteniamo non potrà mai entrare a far parte della nostra.

È una sfida lanciata ai ricchi per stimolarli a non dimenticarsi dei poveri. Obiettivo sovrumano! Meglio scappare nell’irreale...

Persino la morte non è uguale per tutti: i ricchi agonizzano nella bambagia della morfina.
Luigi Alviggi

Giosuè Calaciura: Il tram di Natale
Sellerio, 2018 – pp. 120 - € 10,00
26/2/2019
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