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Approfondimenti
Tra le stanze pompeiane "proibite"
del Museo Archeologico Nazionale di Napoli
di Franco Polichetti
Fino a qualche decennio addietro ai comuni visitatori del Museo Archeologico Nazionale di Napoli era proibita la visita di una decina di stanze dove si trovavano raccolte la maggior parte dei dipinti e delle sculture, rinvenuti durante gli scavi di Pompei, e qui secretati, perché ritenuti, da una morale bacchettona, testi tabù, osceni e volgari esempi di una sfrenata ricerca del piacere sessuale.

Ma adesso queste stanze, a cui, ai nostri tempi potevano accedere solo, previa autorizzazione, gli studiosi, ma che a noi fu proibito visitare alimentando, con la proibizione, la nostra fantasia, sono state, grazie al crollo della bigotteria, aperte a tutti.

Premetto che questa mia rassegna, della parte proibita di Pompei, anche se ne corre il rischio, non è una pruderia pornografica.

Mi sembra opportuno, prima di iniziare la visita per un'appropriata presa di conoscenza di questi reperti, precisare innanzitutto che, ad onore degli antichi, resta il fatto che essi non coprirono mai i loro vizi col paludamento dell'ipocrisia, ma che per attenuare l'impatto osceno, alla libertà figurativa attribuirono un significato sacrale, che fu sempre rispettato, anche nel contemporaneo dilagare dell'esercizio della prostituzione.

In secondo luogo qualche notizia introduttiva sulla pratica e sulla diffusione dell'industria erotica a Pompei non guasta: l'eruzione del 79, col seppellimento, ci ha conservato un discreto numero di "officina" cioè di lupanari, in cui si esercitava la prostituzione, non priva di una certa ostentazione di "raffinatezze… esecutive"; dalle testimonianze lasciate sulle pareti, abbiamo appreso, ad esempio, che la tariffa variava, da donna a donna, e secondo il tipo di prestazione. Quella per un'"ardita" prestazione era di sedici assi, la più alta in assoluto.

Per inciso non desti meraviglia se aggiungo che le prestazioni, già allora, erano quotate in base al gusto ed al piacere che si desiderava soddisfare.

Dunque ripeto il costo più elevato di una prestazione era di 16 assi. Orbene, considerando che in base ai risultati delle ricerche più attuali, il potere di acquisto di un asse romano poteva equivalere a circa 1,5 euro, la prestazione costava, al massimo 24 €. Ben modesta cifra rispetto al costo delle odierne prestazioni sessuali.

Procediamo dunque in questa disamina in cui potremmo includere le tre maggiori città campane sepolte dall'eruzione del 24 agosto del 79 d.C.: Pompei, Ercolano e Stabia, per la loro analogia di costumi e di usi, particolare questo che ha indotto, concordemente, gli archeologi ad accorparle in un quadro generale, passato alla storia col nome di stile pompeiano.

Il nostro interesse, però, in questa circostanza resta centrato su Pompei.
Questa città ci ha restituito un'enorme quantità di documenti che hanno consentito di ricostruire la storia dei suoi abitanti dei loro usi e dei loro costumi, fin nei più minuziosi aspetti: alcuni di questi documenti furono giudicati osceni, in base alla morale corrente, e quindi sottratti alla pubblica conoscenza, e raccolti nelle stanze che virtualmente stiamo visitando.

In assenza del supporto fotografico e visivo mi servirò solo della descrizione dei reperti cercando trarne notizie e conoscenze di vita pratica, il cui apprendimento può essere utile anche per un eventuale futura visita al Museo.

Orbene abbiamo già osservato che i romani avevano, in qualche modo, attenuata l'oscenità "proibita" attribuendole valore sacrale di culto, ma ciò non toglieva che essi riconoscessero la coesistenza di due oscenità: un'oscenità scientifica e un'oscenità fine a se stessa.

Nell'area della Megàle Ellàs - Magna Grecia - il culto fallico e quello orgiastico ebbero una loro originale connotazione, dovuto all'influenza dei romani che, come abbiamo testè detto, sovrapposero un senso morale all'estetismo ellenico.

In particolare i romani e quindi anche i pompeiani, videro il fallo nella sua funzione riproduttrice e lo assunsero anche nella veste apotropaica, cioè dell'allontanamento del malocchio.

Ma i pompeiani ebbero, soprattutto dopo la conquista sillana, anche un culto particolare per Venere a cui dedicarono su di un alto e panoramico pianoro, nei pressi di Porta Marina, un importante tempio andato distrutto col terremoto del 60 d.C..

Di Venere, secondo la mitologia, c'erano due opposte figure: quella di una Venere Pandemia, cioè divinità dell'amore sensuale e della prostituzione, e quella di una Venere Uranica o Fisica, cioè della dea dell'amore spirituale o celeste.

I pompeiani mantennero questa distinzione, con preferenza della Venere Phisica come ci attesta anche Lucrezio, campano certamente, ma probabile pompeiano-sarrastro, che cantò in Venere la creatrice dei vitali principi della natura, ma non toccò gli aspetti del piacere sensuale che in altri contesti Venere esercitava.

Addentriamoci dunque nel labirinto pompeiano dell'amore, senza malizia e senza inibizione, cercando di cogliere l'aspetto, crudamente realistico ma innocente, di un'epoca e di un'umanità senza ricorso a perifrasi o a veli per coprirne la nudità.

I verbi che più frequentemente, ricorrono nelle scritte murarie, adoperati dagli abitanti di questa città per le pratiche erotico-sessuali, pur appartenendo a una deteriore letteratura, rappresentano la cruda realtà: essi sono: futuere (consumare un rapporto sessuale), lingere (leccare), fellare (succhiare) questi verbi afferiscono tutti alla pratica sessuale; gli ultimi due ad sua una degenerazione.

Le analogie allusive di questi termini le possiamo, figurativamente, cogliere nei graffiti osceni che sono stati scoperti sulle pareti di numerosi esercizi di ristoro.

Ad esempio in una caupona (osteria) in prossimità dell'insula del Menandro, un certo Azio Stabulione, gestore, rivolgendosi a un Enoclione avventore del suo locale, scrisse su una delle pareti: bibis et mamillam quam tibi clipeum dedit ubique Venus, che così si può tradurre: "tu preso dal vino berresti anche alla mammella che Venere comunque ti offrì come conforto al tuo vizio".

La mammilla è senza dubbio allusione alla mentula cioè all'organo maschile. Probabile che il vasetto potorio avesse proprio la forma di quell'organo.

L'organo maschile si chiamava fallo, ma anche mentula, verpula, churichilla, termine quest'ultimo che troviamo in un'iscrizione dell'Insula del Menandro come insulto rivolto ad un certo Onesimo: "Onesimo, la churichilla è la dote del tuo labbro" così recita un graffito.

Questa pratica, esercitata soprattutto dagli invertiti, si chiamava irrumazione da ruma, mammella (sempre con allusione all'organo maschile) o fellazione da fellare (succhiare) con allusione all'organo femminile.

L'organo femminile infatti si chiamava cunno o conno da cui deriva il cunnilinto (termine composto da cunno l'organo femminile e il verbo lingere che significa leccare).

Le prostitute di più alto rango esercitavano la loro attività, alla luce del sole, in locali attrezzati che si chiamavano lupanari (postriboli). Altre prostitute mascheravano il mestiere nelle caupone e nei termopoli (rivendite di bevande calde) dove, di giorno, erano addette al disbrigo degli avventori. Altre infine, quelle di più basso rango, adescavano i clienti nei trivi della città o nel pomerio.

L'aver rinvenuto in lupanari diversi, alcuni nomi uguali di donne, lascia immaginare che le esercenti, periodicamente, cambiassero "officina".

Ed ecco alcuni nomi… "di celebrità": Afra Speranza con il marito Demetrio conduceva una caupona nell'insula adiacente al Menandro. Il loro locale aveva un ammezzato con celle meretricie.

A sud di questa caupona un certo Innulo gestiva un locale nel quale esercitavano: Cicada, Mandata, Primigenia e Serena. Un maldicente frequentatore, su di una parete, lasciò il consiglio di astenersi dal cunnilinto in questo locale.

Nel piccolo peristilio del Cubicolo Floreale, presso uno specchio attaccato ad una parete sono ricordate Fortunata landicosa (cioè fornita di una grossa clitoride) e una Euplia laxa (ampio organo).

Queste donne facevano parte del meretricio spicciolo, ma per avere un quadro più completo degli esercizi ove si offriva il sesso, bisogna considerare i lupanari.

Abbiamo già riferito che a Pompei ne sono stati, ad oggi, individuati venticinque, ne descriviamo qualcuno a caso: salendo per la via Stabiana, nel vicolo a destra, prima delle terme centrali, troviamo il lupanare di Somene, uomo o donna? Non si sa! Un personaggio qualificato nequam cioè un poco di buono, per giunta usuraio. Nel suo locale esercitavano: Febe, Glicera, Nebride (la cerbiatta, forse vezzeggiativo d'arte), Optatata, Partenope, Speranza e Successa.

Sulle pareti hanno lasciato i loro nomi dieci frequentatori, con altre notizie tra cui quella relativa al costo della prestazione di Optata che ammontava a due assi cioè tre euro della nostra moneta, mentre quella di Speranza ad otto assi, cioè dodici Euro.

Nel vicolo del Panettiere c'è "l'officina" di Febo "qui stette Euplia con uomini assai validi messi fuori combattimento" così ci informa la scritta murale.

Nel vicolo del Labirinto, nei pressi della torre Decima esercitavano Afrodite, Ias, Restituta, Secunda, Spendusa Timele, Venerie. Quivi Isidoro si divertì col cunnilinto, Massimo si lasciò masturbare da Veneria per tutto il periodo della vendemmia, ma la prestazione più ardimentosa la offriva Timele perché era extaliosa, cioè aveva un lungo intestino retto.

Agli inventori dei termini landicosa, extaliosa, laxa bisogna dare atto della lodevole intenzione di evitare la materialità senza nulla togliere al realismo della descrizione crudamente oscena.

Mi viene, a questo punto, in memoria l'elegante finezza di D'Annunzio che sul medesimo argomento scabroso così ebbe a dire:
"Nella greca mia mente Euclide stesso
fra circolo e triangolo è perplesso".
22/1/2018
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