Un attore dal multiforme ingegno
di Achille Della Ragione
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Passare dal teatro al cinema con nonchalance rappresenta la cifra stilistica del più grande attore napoletano attualmente in circolazione: Toni Servillo, 54 anni, nativo di Afragola, vincitore di tre David di Donatello e tre Nastri d’Argento.
Memorabili le sue interpretazioni cinematografiche, a partire da “Gomorra” di Matteo Garrone, che riesce a trasferire in immagini il cupo e fosco capolavoro di Saviano e nel quale Servillo impersona con cinismo un mercante di morte, che trasferisce i veleni delle industrie del nord, inquinando irreparabilmente terreni da sempre ubertosi, incluse le falde acquifere, rubando letteralmente il futuro alle nuove generazioni.
Dopo “Le conseguenze dell’amore” e “La ragazza del lago”, nel 2008 con “Il Divo”, in cui con volto da clown impassibile ci restituisce un Andreotti espressione paradigmatica del potere, vince a Cannes, dove il film riscuote un grande successo di pubblico e critica.
Ed ora vi è un’attesa spasmodica per come giurati e botteghino risponderanno alla sua ultima fatica, “La grande bellezza”, sempre in coppia con Sorrentino, nella quale interpreta uno scrittore disilluso che voleva conquistare la Capitale, ma viene conquistato dalla Città Eterna, in preda alla corruzione e con una morale da basso impero, specchio di una nazione infetta e moribonda.
È il quarto film girato con Sorrentino, che nel raccontare la mostruosa bellezza di Roma, vuole anche essere per entrambi una sorta di autobiografia intrisa da quella malinconica ironia con la quale i napoletani attraversano la vita.
Toni è Jep Gambardella, un giornalista mondano, arrivato nella capitale da giovane, sull’onda di un primo romanzo di successo alla ricerca della grande bellezza, ma rimasto prigioniero dello scintillante nulla mondano.
Arrivato a 60 anni, senza aver trovato quell’agognata bellezza, vorrebbe scrivere un romanzo sul nulla ma si accorge di non esserne capace.
L’altro protagonista del film è Roma, percorsa nei suoi gironi d’inferno contemporaneo.
La narrazione parte dalla descrizione di una grottesca ed assordante festa romana, una spietata parodia della nostra società dello spettacolo, vivisezionata con una curiosità antropologica, un mondo precipitato in un vortice di atonia morale, frequentato da giornalisti, artisti e politici a braccetto con un drappello di prelati presenzialisti, perdutamente attratti dalla mondanità: un universo dove tutti vogliono apparire e nessuno ascolta nessuno.
Ne esce il quadro di una città unica: da un lato il caos della metropoli, dall’altro un tempio di rovine archeologiche e morali, la Roma papalina, città di Dio, e la Roma infernale morbosamente pagana, un po’quaresimale e un po’ carnevalesca, un luogo ove Yin e Yang sono riusciti ad alternarsi, in forme sempre più degenerate.
Sullo sfondo troneggia un paese allo sbando, in preda ad una grave crisi più morale che economica, che cerca disperatamente di ancorarsi ad un passato glorioso, più immaginato che reale.
Nel cast anche i personaggi minori sono straordinari, da Roberto Herlitzka a Massimo Popolizio, da Sabrina Ferilli ad uno straordinario Carlo Verdone, liberatosi dal consueto cliché e restituito alla dimensione di grande attore drammatico.
Prima di passare alla dimensione teatrale di Toni Servillo, dobbiamo ricordarlo come protagonista della “Trilogia della villeggiatura” (di recente riproposta in un elegante cofanetto), con la quale è stato in tounée per quattro anni in giro per il mondo, da New York a Mosca, da Istanbul a Montreal, passando per il teatro Mercadante di Napoli dove, nel 2007, fu recitata dagli attori senza i costumi di scena per il solito sciopero che paralizzò l’allestimento.
Sono tre commedie in una che irridono all’ambizione dei “piccioli” che vogliono apparire altolocati, mettendo in guardia, allo stesso tempo, dai pericoli della frenesia amorosa.
Attualmente Toni, con il fratello Peppe, sta mettendo in scena una commedia di Eduardo, “Le voci di dentro”, nella quale protagonisti sono proprio due fratelli.
Scritta nel 1948 dal grande commediografo, chiude un ciclo dopo “Napoli milionaria”, “Filumena Marturano” e “La grande magia”, affrontando, nello stesso tempo, il tema della babele dei linguaggi e la difficoltà, nella grande confusione che avvolge la vita, di distinguere la realtà dal sogno.
Al centro della vicenda è Antonio Saporito che, in sogno, molto chiaramente, assiste all’omicidio del suo vicino di casa.
Nel sogno il protagonista identifica anche le prove che dimostrano chi sono i colpevoli.
Egli denuncia gli assassini, che vengono arrestati, ma nell’armadio da lui indicato non vi è traccia dei famigerati documenti. Capisce allora di aver sognato, ma gli accusati, i Cimmaruta, non reagiscono negando, bensì incolpandosi vicendevolmente.
Mentre si svolge l’intreccio, il fratello di Antonio, zio Nicola, si chiude in un silenzio di protesta, esprimendosi solo attraverso lo scoppio di rudimentali mortaretti.
Sembra di vedere in azione Estragone e Vladimiro, di beckettiana memoria, in un mondo in dissesto, dietro cui si nascondono le domande ultime dell’umanità.
Toni e Peppe avevano già lavorato insieme in “Sconcerto”, una performance dove parole e musica si confondevano, esaltando le rispettive competenze: recitative di Toni, sonore di Peppe, storico frontman degli Avion Travel, un’esperienza in comune che ha fatto rivivere ai due fratelli le esperienze giovanili trascorse all’oratorio dei Salesiani di Caserta e l’insegnamento del padre, che parlava sempre loro di Totò, Viviani, De Filippo e li invitava ad osservare le persone comuni, che si agitavano in quel meraviglioso palcoscenico a cielo aperto che è Napoli.