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Cultura
Il San Carlo azzurro e argento che abbagliò Stendhal
di Angelo Forgione
Il "San Carlo", così com'è oggi, lo si deve a uno dei più grandi architetti neoclassici, Antonio Niccolini, che, dopo aver realizzato la facciata nel 1809 ispirandosi alla Villa di Poggio Imperiale a Firenze, riuscì a connotarlo come tempio e monumento simbolo della città.

Poi, dopo l'incendio che lo mandò in fumo in una notte del febbraio 1816, lavorò per sei mesi sull'edificio interno del 1737 a tal punto da renderlo irriconoscibile.

Il Niccolini restituì alla città il più bel teatro del mondo ancora più bello. Invariato tuttora, eccetto i colori originari che probabilmente davano al gioiello un aspetto ancora più elegante e atipico.

Stendhal, la sera dell'inaugurazione al 12 gennaio 1817, ne rimase strabiliato: «Finalmente il gran giorno: il San Carlo apre i battenti. Grande eccitazione, torrenti di folla, sala abbagliante. All’ingresso, scambi di pugni e spintoni. Avevo giurato di non arrabbiarmi, e ci son riuscito. Ma mi hanno strappato le falde dell’abito. Il posto in platea mi è costato 32 carlini (14 franchi) e 5 zecchini un decimo di palco di terz’ordine. La prima impressione è d’esser piovuti nel palazzo di un imperatore orientale. Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita. Niente di più fresco ed imponente insieme, qualità che si trovano così di rado congiunte. […] L’apertura del San Carlo era uno dei grandi scopi del mio viaggio, e, caso unico per me, l’attesa non è stata delusa. […] Non c'è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è come un colpo di Stato. Essa garantisce al Re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare».

Gli occhi di Stendhal erano abbagliati probabilmente per un motivo: le decorazioni erano in argento brunito con riporti in oro e i palchi in azzurro, colore ufficiale della Casa Borbonica, così come il velario e il sipario.

Solo il palco reale era rosso, prima che lo diventasse tutto il teatro quando i colori autentici furono sostituiti col più comune abbinamento rosso e oro per scelta di Ferdinando II.

Accadde nella ristrutturazione del 1844, quando lo stesso Niccolini scrisse che
«il Re personalmente […] di tre parati rossi di carta vellutata di Francia […] scelse il paramento del palco di mezzo […] comandò che gli squarci delle porte de’ palchi […] fossero tappezzate della stessa carta […] comandò che il guanciale de’ parapetti de’ palchi fosse coverto in giro di velluto di lana colore scarlatto […]. Così 800 rolli di carta vellutata di Francia per il rivestimento di tutti i palchi da 1 fila inclusa, all’inizio di agosto del 1844 sono alla dogana di Napoli, giungono in Teatro l’11 settembre e vengono messi in opera entro il mese di ottobre».

Ma l'argento non venne scrostato, l'oro venne applicato al di sopra. Prima del recente restauro, un saggio effettuato sull'ingresso a destra della platea guardando il palcoscenico ha permesso di osservare un putto argenteo perfettamente conservato.

E proprio in preparazione del restauro pare che si sia anche dibattuto di riportare i tessuti ai colori originari per renderlo ancora più esclusivo, ma poi l'architetto Elisabetta Fabbri e l’ex Soprintendente speciale Nicola Spinosa hanno evidentemente pensato di non (ri)trasformare il teatro e lasciarlo come la memoria della città lo ricorda, riportandolo a quel 1844 anche nella trama dei tessuti, oggi non più "carta vellutata di Francia" ma sintetici e a norma.

L'immagine riportata è una chicca. Si riferisce a una tempera di Ferdinando Roberto, pittore dell'Ottocento, raffigurante l'interno del teatro durante la rappresentazione de “L’’ultimo giorno di Pompei” del 19 Novembre 1825. La vista da lontanamente l'idea di ciò che vide Stendhal.

Da lì, una nostra simulazione fotografica al computer.

14/6/2012
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