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Quando i piemontesi privarono il Vomero del panorama
di Angelo Forgione
Il Vomero è collina prima ancora che giovane quartiere.
La sua storia affonda le radici nella Napoli greca ed è ben anteriore all’urbanizzazione partita nell’ottocento e completata nel secolo successivo.

In età romana, la collina si chiamava “Paturcium” da Patulcius, epiteto di Giano, Dio di ogni apertura cui la collina era dedicata, che significa appunto “colui che apre”.

Trasformato nel medioevo in “Patruscolo” e poi “Patruce” da Pontano nel Rinascimento, nel ‘600 si diffuse poi il nome attuale derivante dal “casale del Vommaro” laddove pare si svolgesse a quel tempo una sorta di palio tra contadini che gareggiavano a chi facesse il solco più dritto con i vomeri; dalla città affluivano i curiosi al grido di “jammo a vedè ‘o juoco d’’o vommaro”, trasferendo così al luogo il nome dell’attrezzo.

Al culmine del colle, nel 1170, fu realizzata una torre di vedetta al posto della quale, nel 1300, gli angioini costruirono una certosa e un belforte poi ristrutturato nel 1500 dal viceré Don Pedro de Toledo che diede forma all’attuale Castel Sant’Elmo.

Alle pendici della collina si cominciò a costruire dopo l’unità d’Italia, quando la congestione urbana di Napoli necessitò di soluzioni importanti.
Quando nel ‘700 la città fu resa Capitale da Carlo di Borbone, il sovrano non rivolse alla collina grandi attenzioni preferendone altre a lui più congeniali, come ad esempio Capodimonte.

La situazione urbanistica non mutò con l’erede Ferdinando I, anche se quest’ultimo nel 1817 acquistò per sé e la sua sposa morganatica Lucia Migliaccio di Floridia i terreni utili all’edificazione della Villa Floridiana.

In quegli anni fu realizzata la “salita dell’Infrascata”, attuale Via Salvator Rosa, per consentire all’aristocrazia del centro di raggiungere le case di villeggiatura in collina.

I primi veri interventi si ebbero a valle con Ferdinando II di Borbone che si preoccupò delle esigenze della città dal punto di vista urbanistico-stradale con la realizzazione del Corso Maria Teresa, l’attuale Corso Vittorio Emanuele, la prima vera tangenziale d’Europa che doveva collegare Mergellina alla zona collinare, cingendo il Vomero e sfociando a Capodimonte.

Il tratto dall’attuale Piazza Mazzini a Capodimonte non fu mai realizzato dopo le vicende risorgimentali, ma anche quello oggi esistente è ben diverso da quello di allora in quanto il sovrano vietò con un decreto di edificare sul lato panoramico della strada, salvaguardandone la vista del mare e del Vesuvio.
Il tratto verso Piazza Mazzini fu realizzato dopo l’unità ed è infatti notevole la differenza estetica con quello più basso.

Nel 1860, Garibaldi, appena conquistata Napoli, fece suo un recente decreto borbonico coevo di Francesco II di Borbone col quale decretò la costruzione “nei siti più propri allo estremo dello abitato della città e sulle colline che la circondano, di case salubri ed economiche per il popolo, e massime per gli operai”.

Decreto inattuabile a causa della perdita del ruolo di Capitale che lasciò il Vomero come lo descrisse Gino Doria: “una sterminata distesa verde di giardini e di masserie (…). Poche strade, e le più impraticabili, congiungevano questi nuclei abitati, vibranti di vita nella buona stagione, deserti e squallidi nelle dure invernate”.

A quell’epoca, Roberto Bracco descrisse la popolazione del Vomero in maniera fedele rispetto a come oggi gli stessi vomeresi vengono visti dal resto dei napoletani: “È una folla che non assomiglia punto a quella di Napoli: è una folla campestre, linda, pulita (…)”. Quando a fine ‘800 la zona collinare venne a congiungersi alla città bassa, si avvertì subitò una diversità fra i due livelli cittadini che ancora oggi è motivo di discussione.

Ciò avvenne a partire dal 1885, quando fu emanata la “legge per il Risanamento di Napoli” con la quale si pianificò l’edificazione del Vomero.

I territori tra San Martino e Antignano erano stati da poco acquisiti dalla Banca Tiberina, una banca piemontese agevolata dalla monarchia sabauda che aveva da poco spodestato i Borbone di Napoli.
L’11 Maggio del 1885 Re Umberto I e la Regina Margherita presenziarono alla posa della prima pietra per la costruzione del “Nuovo Rione Vomero” che venne formalmente inaugurato il 20 Ottobre 1889 con l’apertura della funicolare di Chiaia.

Le nuove strade furono battezzate il 19 Aprile del 1890 quando il Comune definì i 37 nomi di artisti vari a cui intitolarle. Nel 1891 fu la volta dell’inaugurazione della funicolare di Montesanto.

Il tessuto viario a maglia reticolare appena nato prendeva corpo con la Via Luca Giordano, Via Scarlatti, Via Bernini e Via Morghen che si incontravano con la Piazza Vanvitelli, nuovo luogo centrale di aggregazione attorno alla quale sorsero i quattro palazzi pressoché omologhi in stile neorinascimentale.
Partiva intanto la costruzione dell’Arenella che prevedeva una sua grande piazza centrale, l’attuale Medaglie d’oro, da cui sarebbero partite a raggiera ben sette strade nuove.

Ne nacque una conurbazione sicuramente moderna ed elegante che avrebbe rappresentato solo dopo molti anni il nuovo riferimento residenziale in città, ma con molti punti deboli che oggi in pochi notano: il piano attuato dalla banca piemontese era “bidimensionale”, adatto ad una città come poteva essere Torino, non certo Napoli, non considerando di fatto le tre dimensioni tipiche della città obliqua.

La verticalità tra Vomero e centro fu completamente ignorata nel progetto urbanistico; un’omissione visibile oggi come allora nell’assenza di vedute paesaggistiche con quel valore aggiunto che è il mare, la cui vista dal Vomero è in buona parte ostruita dai palazzi.

La risorsa panoramica fu così sprecata da una visione imprenditoriale fatta da uomini incapaci evidentemente di comprendere o quantomeno rispettare l’orografia del luogo.

Il periodico d’elite “Napoli Nobilissima”, nel1893, così descrive gli interventi appena realizzati: “Le opere sono mirabili e danno alla città un aspetto ordinato, ma quanto si è guadagnato, tanto si è perduto di notevole bellezza”.

Il nuovo quartiere continuò a prendere lentamente forma nei primi decenni del ‘900 anche con villini dotati di giardini che si contrapponevano agli edifici prima umbertini, e poi liberty e neoeclettici.
Sorsero anche chiese, scuole, impianti sportivi, cinema, teatri, ristoranti e anche nosocomi, facendo della zona una città nella città, maggiormente collegata col centro tramite una nuova funicolare inaugurata nel 1928 col nome di “centrale” per la sua pozione intermediata tra quella di Chiaia e Montesanto.

Nel secondo dopoguerra, l’attività edilizia subì un’impennata vertiginosa che accrebbe la densità popolativa del 360% circa.

Si trattò di quella speculazione edilizia di proporzioni incredibili che Franco Rosi immortalò nel film “Le mani sulla città”.
Gli interessi politici si sposarono con la crescente domanda di una casa al Vomero, trasformando di fatto un quartiere già privato della vista mare anche della sua prerogativa di zona a misura d’uomo. Ai villini si sostituirono i casermoni borghesi che si espandevano dal centro del quartiere verso i nuovi rioni più alti, cambiando definitivamente i connotati alla collina e rendendola ambita ma comunque ben lontana dal risultato che il posto avrebbe potuto ottenere.

Gli ultimi interventi al quartiere si registrano negli anni novanta con l’apertura delle fermate della metropolitana collinare che hanno dotato il quartiere di un ulteriore mezzo di trasporto e di nuovi arredi urbani nelle piazze a lungo interessate dai lavori.

A testimonianza di un’urbanizzazione che ha divorato la collina ma anche di una storia antichissima che fa del Vomero la corona della città, nel dicembre 2010 l’antica vigna di San Martino, la zona agreste ai piedi della Certosa di San Martino sopravvissuta al saccheggio edilizio, è divenuta monumento nazionale per decreto ministeriale.

7/4/2011
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