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Giorgio Bocca, nuove falsità storiche sul meridione
di Angelo Forgione
Giorgio Bocca torna ad occuparsi della questione meridionale e lo fa alla sua maniera, ovvero mistificando la storia. Del suo ostracismo nei confronti del sud ne abbiamo già avuta ampia dimostrazione. Ormai famosi i suoi attacchi verbali a Napoli e al sud dal pulpito di “Che tempo che fa” e il vilipendio della storia della città partenopea in una puntata di “Passpartout” di Philippe Daverio incentrata sui meriti della dinastia borbonica tra settecento e ottocento preunitario.

In quelle occasioni aveva invocato l’Etna e il Vesuvio, indicando Napoli, che solo 150 anni fa fu la Capitale d’Europa insieme a Parigi, come “una città decomposta da migliaia di anni”, definendo la Reggia di Caserta “una reggia da Re Sole in un paese di Re merda”. Bocca aveva dato ai Borbone di Napoli l’appellativo di megalomani perché invece di realizzare il magnifico Museo Archelogico Nazionale di Napoli avrebbero dovuto dedicarsi alle poste e telegrafi. Un fuoco di fila che aveva sdegnato gli ospiti di Philippe Daverio in “Passpartout” ma non Fazio e il suo divertito pubblico a “Che tempo che fa”.

Lo scrittore piemontese è tornato a scontrarsi ideologicamente col meridione definendo “luoghi comuni” quelli che tendono a rivalutare proprio quel sud preunitario depredato dal nord. Lo ha fatto stavolta nella rubrica “L’antitaliano” de “L’espresso” del 26 Novembre su cui ha scritto che il sud è pieno di luoghi comuni contro il nord.
«Il lamento meridionalista si rinnova (…). Ritorna la vecchia storia del Nord ricco e industriale che sfrutta il Sud povero agricolo e lo depreda dal poco di benessere che aveva raggiunto (…). Il Sud e la Sicilia del regno borbonico, liberati o conquistati da Garibaldi, ricchi e progrediti certamente non lo erano. Il Sud è povero da secoli e lo è ancora».

Scorrendo la lettura dello scritto ci si scontra col tipico esercizio scorretto di chi sostiene a spada tratta la retorica risorgimentale e vede il meridionalismo come un male da sconfiggere. Bocca ripropone, come prova dell’arretratezza del sud, il tipico esempio del chilometraggio delle strade al 1860: al nord erano 67mila e al sud solo 15mila. Un dato strumentale, fuorviante e propagandistico poiché il raffronto è improponibile tra regioni come il Piemonte e la Lombardia che non avevano sbocco sul mare e le regioni del sud che concentravano lo sviluppo sulla fascia costiera. Il Regno delle Due Sicilie attuò una scelta politica puntando sui trasporti marittimi e fu vera lungimiranza poiché la flotta commerciale dello stato duosiciliano divenne per questo la seconda in Europa e quella militare la terza. Con l’imminente apertura del Canale di Suez e lo sviluppo delle ferrovie al sud, il primato assoluto era all’orizzonte grazie ai traffici con l’oriente rispetto ai quali Napoli si avviava ad avere posizione di privilegio nel mediterraneo rispetto a Londra, e questo fu uno dei motivi per i quali si pianificò il soffocamento di una grande potenza meridionale che i detrattori di oggi continuano a non voler riconoscere come tale.
Oggi l’Unione Europea spinge per le autostrade del mare col progetto TEN-T, cercando di ripercorrere quel che a metà dell’ottocento era già realtà nel Regno delle Due Sicilie.

Nonostante questa scelta, i collegamenti interni non furono abbandonati, anzi erano anch’essi in buona espansione per precisa volontà di Ferdinando II che fece realizzare strade importanti come l’Amalfitana, la Sorrentina, la Frentana, l’Adriatica, la Sora-Roma, la Appulo-Sannitica, l’Aquilonia e la Sannitica. In soli quattro anni, dal 1852 al 1856, furono approntate ben 76 strade nuove e si studiò per la prima volta la fattibilità del Ponte di Messina che Ferdinando II mise da parte perché troppo costoso per il popolo. In questa ottica si inseriscono, con grande risalto dal punto di vista tecnologico, le realizzazioni dei ponti come quello sul Garigliano che fu il primo sospeso a catene di ferro in Italia. E non di minore importanza fu la realizzazione delle prime ferrovie e delle prime gallerie ferroviarie al mondo. Un’espansione dei collegamenti anche su terra troncata dall’arrivo a Napoli di Garibaldi… a bordo del primo treno d’Italia.
 «Le industrie tessili del Sud – dice Bocca – non vendevano una pezza sul mercato europeo».
Per smentire una simile affermazione basterebbe l’esempio delle seterie di San Leucio che già allora interessavano le maggiori corti del continente e ancora oggi arredano Buckingam Palace e la Casa Bianca, o anche i tanti opifici di lavorazione delle pelli che sfornavano i pregiatissimi guanti napoletani che erano i più richiesti d’Europa. A Porta Capuana era il lanificio Sava che forniva pantaloni all’esercito francese oltre che a quello napoletano. Nell’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856, il Regno delle Due Sicilie ricevette il Premio come terzo Paese più industrializzato del mondo, dopo l’Inghilterra e la Francia, e tutto questo grazie ai principali settori industriali dell’epoca che erano la cantieristica navale, quella tessile e quella estrattiva.  Degli stati preunitari del Nord, neanche l’ombra in quella occasione.

«L’arsenale dei Borboni – secondo Bocca – era certamente per l’epoca un grande complesso industriale, con più di mille operai che producevano navi, locomotive, cannoni e macchine, ma fuori mercato, destinato a fallire già nel 1870».
Gli stabilimenti siderurgici di Pietrarsa e Mongiana in Calabria, a cui fa riferimento Bocca, non erano affatto fuori mercato e per nulla destinati a fallire. Se ciò accadde fu perché boicottati a favore dell’economia settentrionale ed è essenziale l’operato di Carlo Bombrini, uomo vicino al Conte di Cavour e Governatore della Banca Nazionale che, presentando a Torino il suo piano economico-finanziario atto ad alienare tutti i beni dalle Due Sicilie, pronunciò una frase riferita ai Napoletani: «Non dovranno mai essere più in grado di intraprendere». Bombrini fu tra i fondatori dell’Ansaldo di Genova, società alla quale furono indirizzate tutte le commesse fino a quel momento appannaggio di Pietrarsa e Mongiana.
Dopo corposi licenziamenti, le lotte sindacali e gli spari di Carabinieri e Bersaglieri che lasciarono a terra senza vita alcuni operai in sciopero, Pietrarsa fu lentamente declassata da officina di produzione a officina di riparazione, per chiudere definitivamente nel 1975 non perché fosse “fuori mercato” come scrive Bocca. Stessa sorte per Mongiana.

Bocca parla anche di analfabetismo nel meridione: «il 90 percento di analfabeti in Sardegna, l'89 in Sicilia, l'86 in Calabria e in Campania». In primis va detto che la Sardegna era terra sabauda legata al Piemonte in quello che era il Regno di Sardegna che niente aveva a che vedere col Regno delle Due Sicilie, e lo scrittore questo non può non saperlo. Inoltre va detto che non esistono statistiche attendibili sull’alfabetizzazione al 1860 mentre quelli che sono stati spacciati per preunitari sono i dati al 1870, rilevati dopo dieci anni di chiusura delle “scuole normali” borboniche imposta dal governo sabaudo che si apprestava a scrivere i libri di storia ancora oggi sui banchi delle scuole italiane.

L’articolo di Bocca si scontra non solo con i meridionalisti più accesi ma anche con le tante analisi autorevoli che piovono da più fronti e che negli ultimi anni stanno dando chiarezza all’origine della questione meridionale. Tra queste, quella autorevole della Banca d’Italia firmata dagli studiosi Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli che in un loro saggio dello scorso Luglio affermano con chiarezza che «l’arretratezza industriale del Sud, evidente già all’inizio della prima guerra mondiale non è un’eredità dell’Italia pre-unitaria»
Uno studio basato su tabelle statistiche che prendono in esame i censimenti ufficiali del neonato Stato italiano negli anni 1871, 1881, 1901 e 1911 e che consentono agli studiosi di affermare che: «il loro esame disaggregato rafforza le principali ipotesi revisioniste suggerite dai dati regionali».

Già un altro saggio, quello di Paolo Malanima, direttore dell’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo del CNR e di Vittorio Daniele dell’Università “Magna Græcia” di Catanzaro, aveva fornito la prova di un inesistente divario tra il p.i.l. del nord e quello del sud preunitari, scarto che inizia invece a prendere corpo proprio nel 1861 con l’unità d’Italia.

A 150 anni dall’Unità d’Italia, il dibattito sul Risorgimento e sull’origine della questione meridionale impazza e rinvigorisce sempre più con i dati i sostenitori della toeria di un Sud depredato e sfruttato a cui si oppongono strenuamente uomini come Giorgio Bocca che sembrano non starci affatto e argomentano ideologicamente e senza dati oggettivi. Non è raccontando falsità storiche che si fa cultura e si costruisce una nuova identità unitaria che appartenga a tutta la nazione. La verità nascosta è un mostro che alberga in ogni italiano; in tanti l’hanno riconosciuto e lo guardano dritto negli occhi ma chi si ostina a dipingerlo come un cigno continua ad allontanare la realtà storica che è un bisogno insopprimibile. I luoghi comuni che lo scrittore attribuisce ai meridionalisti cercando di delegittimarne la ricerca di verità vanno sempre più nella direzione di quell’antico adagio che recita così: la miglior difesa è l’attacco. E questa non è volontà di unire ma di mantenere le divisioni.

Articolo di Giorgio Bocca su “L’Espresso”
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/sud-basta-coi-luoghi-comuni/2139103
Giorgio Bocca contro Napoli a “Che tempo che fa”
http://www.youtube.com/watch?v=JvrAKt_HxXo
Giorgio Bocca infanga la storia di Napoli a “Passpartout”
http://www.youtube.com/watch?v=3MvRF2g_--Q

29/11/2010
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