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Recensioni
Noi credevamo
di Pasquale De Renzis
L’importanza di opere come “Noi Credevamo” di Mario Martone sta nel far riflettere sulle proprie origini mettendole a confronto con l’attualità: alla vigilia dei festeggiamenti per i 150 anni dall’Unità d’Italia arriva in sala un film che chiarisce situazioni che la storiografia più acclamata ha preferito semplicemente accennare se non addirittura omettere in molti casi.

Partendo dalla storia di tre ragazzi cilentani che vedendo uccidere dei rivoluzionari repubblicani dall’esercito borbonico decidono di affiliarsi alla Giovine Italia mazziniana, Martone attraversa con il suo racconto e le sue immagini quasi un secolo di storia italiana: il Risorgimento di “Noi Credevamo” sottolinea le incredibili differenze tra repubblicani e monarchici, tra chi da subito vedeva, con la cacciata dei borboni dal meridione, un annessione del sud al regno savoiardo e chi invece era spinto da ideali democratici a combattere per spodestare una monarchia di invasori così da unificare l’intero popolo italiano sotto un’unica bandiera.

L’opera è composta da quattro parti che potrebbero tranquillamente avere vita indipendente, quattro film intensi che mostrano l’evoluzione dei protagonisti di pari passo con l’intensificarsi delle discrepanze tra le fazioni che si preparano ad unificare l’Italia: tra congiure e attentati, riunioni e proclami si assiste al passaggio dalla teoria rivoluzionaria all’azione pratica che costa prigione e torture, tradimenti e numerose morti.

Il frammento finale di “Noi Credevamo” è il più devastante, l’Italia pare ormai unita con la graduale conquista dei territori meridionali eppure l’esercito dei Savoia trucida migliaia di contadini, di lavoratori, di persone indifese accusate di essere briganti: arrivano i garibaldini e molti soldati dell’esercito regolare disertano e si uniscono alle camice rosse perché è il momento di fare la vera Italia repubblicana, di conquistare Roma e di liberarsi dopo l’autorità papale anche di quella monarchica; ma le truppe piemontesi sparano anche su di loro, li arrestano e giustiziano senza appello i disertori. L’Italia è stata fatta ma a discapito e col sangue degli italiani e nel Parlamento del Nord da alcuni di quei personaggi che avevano appoggiato la rivoluzione repubblicana vengono pronunciate parole di condanna verso Mazzini e la sua idea di unificazione, tanto da renderlo esule in patria.

Per preparare questo film Mario Martone ha lavorato sette anni, tra ricerche storiche, sceneggiature scritte e riscritte, fino a quella definitiva con Giancarlo De Cataldo ispirandosi oltre a fatti realmente accaduti anche al romanzo omonimo di Anna Banti.

L’aiuto regista Raffaele Di Florio ha rivelato che ci sono voluti tre anni per scegliere il cast, e una delle forze maggiori di “Noi Credevamo” sta proprio negli interpreti che elevano la caratura di ogni singola scena, anche perché a parte i protagonisti, eccezionali Luigi Lo Cascio e Valerio Binasco, si è al cospetto di un gruppo d’attori che sorprendono come Francesca Inaudi, Michele Riondino, Ivan Franek, Guido Caprino, Stefano Cassetti, Franco Ravera, Edoardo Natoli, Luigi Pisani, Andrea Bosca, gli esperti Luca Barbareschi e Luca Zingaretti, ma soprattutto il gruppo di affezionati del regista Mario Martone, quello che rende film come “Morte di un matematico napoletano”, “Teatro di guerra”, cosi come quest’ultimo, risultati di un affiatamento e di un progetto in cui l’alchimia e la fiducia verso le persone con cui si lavora è totale: se Toni Servillo nel suo Mazzini è addirittura mastodontico, vengono esaltati ripagando con maestria interpreti come Renato Carpentieri, Andrea Renzi, Enzo Salomone, Antonio Pennarella, Roberto De Francesco, Salvatore Cantalupo, Anna Bonaiuto, Marco Mario De Notariis. Emblematico il racconto di alcuni di questi attori che per confermare la loro assoluta fiducia nell’opera di Martone hanno detto di aver atteso in certi casi anche tre giorni prima di girare una scena, in situazioni ambientali non favorevoli come nelle riprese per le immagini della prigionia di Montefusco dei rivoluzionari, che sono avvenute in realtà nel paese pugliese di Bovino in due settimane di pseudo - clausura tra set e albergo distanti tra loro quaranta chilometri.

A differenza di un capolavoro della cinematografia italiana che si occupa dello stesso periodo storico, “Il Gattopardo” di Visconti, Mario Martone ha scelto di evitare l’estetismo, di non eccedere in manierismi, anzi di sopprimerli dalla sua regia non eliminando nemmeno quei momenti di imperfezione delle riprese rendendoli anzi naturali, mostrando dissonanze storiche come uno degli interpreti con un orologio al quarzo, indugiando su un’inquadratura che dall’interno di un rifugio si sposta con il protagonista verso l’esterno rivelando che altro non è che la carcassa delle fondamenta di un edificio moderno abbandonato, evitando eccessivi movimenti di macchina; il regista ha voluto dimostrare che in Italia è possibile fare un film storico, in costume, un’opera corale affidandosi ad un mondo cinematografico, lavoratori e attori, che nell’ultimo periodo sta subendo un attacco frontale da parte delle forze governative così come tutto l’universo culturale del paese, con tagli impressionanti agli investimenti così come al FUS (fondo unico per lo spettacolo).

Un film di tale imponenza e rilevanza culturale va elogiato anche perché l’Italia a differenza di altri paesi, ad esempio America e Francia, ha quasi sempre evitato di raccontare gli eventi storici che hanno portato alla propria nascita, come non si volesse rischiare di rompere una pacificazione che in realtà non c’è mai stata se una forza politica secessionista come la Lega Nord può essere parte integrante di un governo che guida la nazione: “Noi Credevamo” è un’opera didattica che andrebbe diffusa il più possibile, ed invece nel paese dell’assurdo e del paradosso quale è divenuto l’Italia è stato distribuito solo in trenta copie, in nessuno dei multicinema con dieci e più sale si può vedere il film di Martone, tra Puglia e Campania sono solo quattro i cinema che lo proiettano, e a produrlo è stata la Rai con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ma stranamente la televisione di Stato non si è preoccupata minimamente della visibilità dell’opera e ha commentato la scarsa distribuzione dicendo che non ci sono cinema di proprietà della Rai e quindi la distribuzione non è un loro problema, quasi l’uscita in sala sia un passaggio fastidioso per un progetto nato ad uso esclusivo del mezzo televisivo per idea di qualcuno.

Il film dura circa 200 minuti ed è triste pensare che a prescindere dall’importanza del progetto e dalla qualità dell’opera le case di distribuzione snobbino e sottovalutino prodotti del genere solo per la loro durata, sempre che non si tratti di pellicole tridimensionali alla Avatar.

13/11/2010
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