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Cultura
Un secolo di risate
di Luigi Alviggi
Emerge – scorrendo la storia dello spettacolo del Novecento - il largo dominio della comicità di marca napoletana nei suoi vari settori: teatro, e specificamente nell’ambito dell’avanspettacolo, e, a seguire, radio, cinema, televisione. L’elenco degli esponenti partenopei in tale arte è quanto mai nutrito ed Antonio Ghirelli, con un’opera breve ma incisiva, mette ben a fuoco tale aspetto nel panorama artistico globale dei due secoli scorsi.

“Un secolo di risate” (Edizioni Avagliano 2004, pp. 130 - € 11,00) racconta dei massimi calibri di una napoletanità che ha fatto scuola, e non solo in Italia, e che ha lasciato un segno indelebile nella maturazione di tutti noi. Il riso che ha provocato - sì, a volte anche scomposto – ed il conseguente sollevarsi dello spirito, è stato sempre foriero di meditazione, velata di malinconia, che ci ha guidato ad aprire gli occhi sulla vera realtà della vita.

Antonio Ghirelli, giornalista e scrittore, ex-direttore di numerosi giornali, del TG2, già capo Ufficio Stampa di Palazzo Chigi e del Quirinale, ha cumulato numerosi premi nel suo lavoro, sia per singole opere che per la carriera. Il presente scritto, basato anche su ricordi personali di tutto rilievo, ripercorre le tappe storiche di attori/autori da professionalità e bravura sempre ai massimi livelli, che ci hanno rallegrato - e ci rallegrano tuttora - in innumerevoli occasioni.

Partendo dai “fescennini” - dall’antico popolo dei Falisci, ubicato nell’Etruria meridionale, all’incirca oggi Civita Castellana -, versi licenziosi recitati da attori mascherati nei primi tempi di Roma durante feste campestri; e dalle farse “atellane” – favole di Atella, città degli Osci (da cui l’aggettivo osceno) posta tra Capua e Napoli, all’incirca oggi Orta di Atella – recitate, o meglio improvvisate, da attori con maschere fisse (Macco, Pappo, ecc.), si passa ai mimi e alla fioritura della Commedia dell’Arte, e si arriva, quindi, alla prima maschera di questa che parla in dialetto: Pulicinella Cetrulo, acerrano doc, che emerge dalle figure dei “zanni” (servi) di epoca medievale con i suoi primi interpreti di levatura tale da lasciare tracce storiche, Tiberio Fiorillo, Vincenzo Cammarano ed i tantissimi altri a seguire.

Con l’Ottocento appaiono i giganti. Prima Antonio Petito, che inizia a trionfare sulle scene - del S. Carlino in particolare - verso la metà del secolo, e che sulle tavole del palcoscenico, subito dopo aver concluso nei panni di Pulcinella l’ennesima rappresentazione, terminerà la sua avventura terrena in una triste sera del marzo 1876. L’impresario Luzi pronuncerà, con lui tra le braccia, il miglior elogio dell’artista: “Ma vuie capite?… nun è n’ommo che è muorto, è ‘nu triato… è ‘o San Carlino”. Petito, puro analfabeta, seppe – nella sua lingua impossibile - sviluppare e lasciarci moltissimi copioni.

Con Eduardo Scarpetta – soprannominato Perzecone, il creatore del personaggio di Felice Sciosciammocca, - il teatro comico rafforza le sue posizioni e si imborghesisce, allargando la platea a tutti i ceti sociali. Interprete straordinario, domina le scene in tutta Italia sin circa agli anni ’20 del secolo scorso. Mitica è la sua magica “cassa” in cui erano racchiusi in abbondanza copioni e spunti vari, da cui avrebbero attinto a piene mani i suoi discendenti, legittimi e non. Tra le sue tante opere notevoli citiamo soltanto “Miseria e Nobiltà” del 1888.

Per Raffaele Viviani, Ghirelli dichiara il suo particolare legame. Nel 1970, con Achille Millo, firmò lo spettacolo “Io, Raffaele Viviani”, selezione di poesie, scene e canzoni di questo artista. La catastrofe di Caporetto del 1917, con la conseguente proibizione di tenere spettacoli di varietà sul territorio nazionale, spingerà Viviani – anch’egli analfabeta ed autodidatta - a diventare commediografo, e dai singoli numeri o scenette nascerà la grande fioritura dei suoi atti unici e, più tardi, delle commedie vere e proprie: “Con lui Napoli diventa italiana, rinunciando a celebrare il suo passato, le sue glorie, la sua ambigua “doucer de vivre”… Ogni battuta, ogni situazione, ogni personaggio di Viviani è una rivolta. Il regime fascista lo capisce, e perseguita l’artista… I gerarchi detestavano Viviani perché recitava in dialetto e raccontava le verità del nostro popolo: preferiva le mazze di scope ai mandolini e le prostitute alle signorine perbene diplomate in pianoforte, se questo era necessario per gridare al mondo che specie d’inferno sia Napoli.” Viviani indugia sull’uomo, nella sua quotidiana fatica di “campare l’esistenza” e lo racconta così com’è nella sua cruda realtà che tanto spesso fa ridere, anche se con la tristezza nel cuore. Con “Rafiluccio” nasce il tocco magistrale nell’osservazione dell’umanità che ci circonda, prerogativa principe di Eduardo, ed un altro suo personaggio anticipa la marionetta slogata che sarà il cavallo di battaglia di Totò.

Non ci soffermiamo sulle figure di Eduardo – e delle grandi donne, a partire dall’indimenticabile sorella, Titina De Filippo, che hanno recitato negli anni accanto a lui –, di Peppino, di Totò – Antonio Griffo Focas Flavio… De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale,conte palatino… -, troppo celebri per tutti, e diciamo solo che nel libro si ha la possibilità di scoprire molte cose anche su questi grandi. Un esempio per tutti: Totò esordì nel 1930 all’Augusteo di Napoli nella rivista “I tre moschettieri”, firmata da Kokasse (Mario Mangini, genero di Scarpetta). La sua ultima apparizione, nel 1968, è nell’episodio “Che cosa sono le nuvole” del film di Pier Paolo Pasolini “Capriccio all’italiana”.

Giustamente, a chiudere la serie dei massimi interpreti della comicità napoletana, vengono riportati Massimo Troisi e Vittorio De Sica.

Massimo Troisi, per il quale da poco si è celebrato il decennale della scomparsa, si è affermato “per una personalissima comicità venata di malinconia e di dolcezza, un impasto assai originale in chiave linguistica e soprattutto l’attitudine a rivivere con estrema modernità la tradizione del teatro dialettale.” Il suo successo è iniziato, a sedici anni, in teatro, insieme con Lello Arena ed Enzo Decaro, nel trio cabarettistico “I saraceni”, poi divenuto “La Smorfia”. Eduardo De Filippo lo definì “un comico di domani con le radici nel passato”.

Vittorio De Sica ha tutti i diritti ad una napoletanità onoraria, più volte da lui cercata e dichiarata ed, in effetti, pur non avendovi avuto i natali, fu sempre un grande ammiratore del nostro popolo. Anch’egli debuttò all’inizio degli anni ’30 con la compagnia di riviste Za-bum, creata da Mario Mattoli, ma sarà il cinema a decretarne il successo: “Gli uomini che mascalzoni” di Mario Camerini è del 1932. Nel ’40, “ci sono già le premesse non solo della svolta neo-realista ma soprattutto della qualità fondamentale dell’arte di De Sica: la sua umanità, la capacità – così napoletana – di amare la gente, di avvicinarsi cordialmente, con allegria e pietà al prossimo, soprattutto di “saper guardare”, di fidarsi solamente delle cose che vede, dei sentimenti che prova.” Oltre ai grandissimi film realizzati, merito collaterale di De Sica è stato l’aver saputo guidare l’attrice Sophia Loren ai massimi vertici espressivi, internazionalmente riconosciuti.

Afferma Ghirelli: “Il contrasto tra la ricchezza umana e culturale del nostro popolo e la desolante, talora scandalosa, incapacità di governo, di formazione e di solidarietà della sua classe dirigente, è alla base di un pauroso degrado che va dalla diffusione capillare della criminalità organizzata a quella di una generalizzata filosofia dell’illegalità, dalla disoccupazione di massa all’inarrestabile logoramento delle strutture urbane.”

Forse è proprio da questa tragedia, in cui l’animo napoletano è immerso e dalla quale viene costantemente imbevuto, che esso, per non soccombere – trovata la via di metabolizzarla e trasfigurarla nell’intimo - giunge alle vette eccelse di una travolgente comicità, con cui sa indorare di soffusa ironia l’amaro boccone cui la quotidianità puntualmente lo costringe.

E la napoletanità, anche per Ghirelli, trova la sua piena esplicitazione e ragion d’essere nel sentimento: “Non c’è situazione sociale, non c’è ambizione soddisfatta che agli occhi di un figlio verace del Golfo conti quanto un amore ricambiato o semplicemente intravisto, sperato, sofferto. Se scriviamo romanzi, poesie, soprattutto canzoni non è perché aspiriamo al premio Nobel o al festival di Sanremo ma è, semplicemente, perché siamo innamorati. Tanto è vero che di questa condizione ci piace tutto.”

Una ricca miniera di annotazioni, aneddoti, memorie, ci scorre avvincente sotto gli occhi lungo le pagine di quest’opera del Ghirelli e, attraverso di essa, impariamo ad apprezzare ancor più il patrimonio che ci è stato affidato da questi sommi interpreti della levità della vita, rinsaldando - verso tutti loro - il nostro immane debito di riconoscenza.
12/10/2004
  
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