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Recensioni
Come se niente fosse
di Luigi Alviggi
Undici racconti, di coinvolgente lettura, aprono lo sguardo su una serie di scenari distinti nei quali la differenza tra realtà, eventualità, immaginazione, caso, perde valore, e si rimane avviluppati in un piano narrativo, originale e complesso, nel quale sono profusi invenzione e disordine voluto del reale, mirati a dissestare convinzioni personali che, una volta poste sotto esame, finiscono col perdere ogni supporto di unicità.

Il racconto che apre la narrazione, di sintesi lapidaria, effettua una singolare collimazione tra vita reale, arte, astrazione, portando alla ribalta un personaggio “sospeso” in vista di un mutamento sconvolgente, racchiuso nell’ignoto del cosa effettivo, e la volontà dell’Autore di farne titolo del libro schiude un’ontologia meritevole d’indagine. E perché non ipotizzare che il “come se niente fosse” voglia additare un’alternativa dirompente alla realtà con la quale ci confrontiamo?

Il “sospeso” pare divenire elemento caratterizzante dell’intera esposizione, aprendo la mente del lettore al non detto, o a quanto può essere intuito tra le righe, stimolando libertà d’interpretazione in una sorta di liberazione proiettiva del proprio essere nascosto (anche la copertina si iscrive in questo filone?).

Le metafore narrative sono metamorfosi di sentimenti abitudinari, questi visti come incoercibile restrizione a un’esistenza più totale e gratificante.

Siamo al cospetto di pensieri messi in forma scritta da personaggi comuni ma riflessivi che, in tale forma, vogliono essere maggiormente incisivi e guidare la mente di chi legge a un’analoga analisi rifondatrice del sé.

E può essere l’incerta sveglia del mattiniero sognatore, che si perde in una giravolta dello spazio-tempo che rappresenta una nuova dimensione di vita; o l’odissea perenne dell’”homo scrivens”, ripercorsa in tutte le tappe del rapporto tra autore e editore, dense dei sogni e illusioni sul proprio futuro del primo, che - succede anche questo - qualche rara volta può anche andare in porto, ma anche in questo caso un discolo girotondo ingannatore sembra ricacciare tutto nell’onnipresente “sospeso”; o l’incubo dovuto allo stress sotto esame dello studente, pluribocciato allo stesso, che ha organizzato alla perfezione il ruolino di marcia della preparazione ed ecco, a sconvolgere tutto, subentra la morte del padre che gli fa smarrire in allucinazioni il passo faticosamente conquistato; o il complesso rapporto amicizia–sfruttamento che viene a legare, in maniera via via sempre più soffocante, i due personaggi del racconto “l’ultima luna”.

In questo la strumentalizzazione, congeniale al carattere dell’ospite, finisce col provocare il rigetto da parte dell’ospitante, delineando un labile legame nel quale dalla familiarità si passa all’ostilità conclamata, che spinge il padrone di casa, saturo, a rompere di botto ogni possibile rapporto.

La narrazione in terza persona, eccetto che nel primo e ultimo racconto, vale a oggettivare la vicenda, a porla in una teca ove possa essere osservata in ogni aspetto da chi guarda, e frappone un divisorio tra Autore e lettore.

Si parla dell’umanità, e la singolarità dei soggetti trattati vuole rappresentare soltanto la diversità dell’individuo che a volte può giungere al surreale.

Lo stile è influenzato dai balzi in questo dominio, a metà tra l’irrazionale e l’onirico, e favorisce la critica soggettiva di chi s’immerge a pieno nella vicenda.

La pagina resta sempre piana e scorrevole, fornendo il necessario ancoraggio a quanto narrato, che può schizzare liberamente verso l’alto senza per questo disorientare il lettore.

Gianfranco Pecchinenda ha origini sudamericane, e un sapore definito di tale eredità letteraria affiora tra le pagine di questo lavoro. Già Preside di Facoltà, è oggi docente di Sociologia presso la Federico II di Napoli. Oltre ai numerosi saggi professionali, questo è il suo quarto lavoro letterario.

Il racconto emblematico sul quale ci soffermiamo è “kafta-kafka”, nel quale già la commistione del titolo tra pietanza speziata mediorientale e grande scrittore praghese fornisce un indizio sulla sostanza del narrato.

Un uomo di mezz’età è seduto al bar e gusta un grog mentre fuori nevica. Nella tremolante visione che si offre fuori dalle vetrate, la facciata del palazzo di fronte si anima funzionando da schermo per attraenti visioni: della sua vita? di quella di altri?, poco importa.

Vede un uomo che attende qualcosa, una telefonata o l’arrivo del padre nel piccolo appartamento da lui ereditato. L’attesa si prolunga. Il tuffo nel passato prende vita, riecheggiando reminiscenze sveviane in quel ricordo dei dettami ripetuti oltre la norma dal genitore esigente.

Ma le immagini sono poca cosa rispetto al bagaglio di sensazioni e sentimenti che si portano dietro, e che acquistano evidenza mai avuta all’epoca dell’accadimento.

Poi, come spesso accade nella mente di un anziano, una stessa immagine diviene sintesi di eventi verificatisi in epoche diverse che, nella memoria, facilmente saltano dall’uno all’altro.

E basta pochissimo, come una palla di neve scagliata per gioco che va a infrangersi contro la vetrina del locale, perché il salto temporale sia facilitato e scorra come un continuum ininterrotto.

Se l’uomo in questione è poi uno scrittore, ecco che il surreale non è più sorprendente ma diviene un aspetto diverso dell’ordinario con il quale si può convivere perfettamente, scoprendo sempre nuovi aspetti di quanto egli rivive nel film inatteso.

E se qualcosa nasce dall’assonanza tra Kafka e kafta, il cibo ha rilievo solo perché introduce l’atmosfera d’indefinita attesa di qualcosa che ben aleggia, o meglio caratterizza, le pagine del grande scrittore.

Si giunge al punto nodale: la rappresentazione sul muro del palazzo sfonda in una sorta di scena primaria fantasmatica. Ora è un bambino di otto anni che attende che il padre torni a casa per accompagnarlo a scuola. Aspetta vedendo cartoni animati in tv, e il tempo passa senza accorgersene.

Senonché il ritardo diventa eccezionale, sono le undici e il padre non giunge. Il figlio vuole scendere giù al portone per fare più presto ma scopre che la porta di casa è chiusa. Trova le chiavi e apre ma - sorpresa! - non trova il solito ambiente esterno.

C’è un’altra stanza in cui, ora adulto, vede presentarsi la madre morta che dà un messaggio da riferire al padre. Poi dice di dover raggiungere il suo di padre per una lezione di tango.

E qui le citazioni dal Re Lear vogliono forse richiamare la doppia trama che impronta questi fantasmi rivissuti. L’uomo, spinto a uscire dal bar, una volta fuori avverte subito l’esigenza di rientrarvi per abbandonarsi di nuovo alla sottile malia delle magiche immagini presentatesi, ma trova la porta sbarrata e a nulla serve sbattervi i pugni contro. Dentro nessuno se ne accorge.

Il fantasma ancestrale ha colpito duro, sconvolgendo tutta l’esperienza personale del misero avventore. Ma rientrare nel passato è impossibile! L’incantesimo subìto è però tale che non ha più la forza di rinunciarvi, e nulla si frappone a contrastare il desiderio che diventa necessità suprema da soddisfare a qualunque costo.

Se vuoi crescere, devi imparare a essere sincero, devi avere il coraggio della verità. Casomai un giorno ti potrebbe capitare di comprendere che la verità non è per tutti, e questo può essere anche vero, ma almeno fallo per te. Oppure dimenticala, la verità, che tanto si può vivere anche senza. È meglio non cercarla affatto, se temi di non saperla affrontare. E la verità — ricordalo — la puoi conoscere fino in fondo solo attraverso la finzione, attraverso l'arte, attraverso la letteratura.
La figura genitoriale – del padre specialmente – staziona, in modo più o meno esplicito, al fondo dei protagonisti di questi racconti, tutti maschili eccetto uno.

È lui l’artefice primario, com’è normale che sia, di quel delicato meccanismo che per ciascuno di noi costituisce l’adattamento al mondo esterno, la maniera di muoversi nello spigoloso contesto sociale in cui viviamo immersi.

Se la madre struttura i primi anni di vita, i secondi sono il risultato dell’azione paterna. E la loro ombra si diffonde, a volte in maniera opprimente, su tutti gli anni a venire provocando una crescita che può rivelarsi senza termine, non giungendo mai a sfociare nella piena maturità.

I genitori troppo spesso si illudono di poter crescere i figli a propria immagine e somiglianza, uno dei grandi ostacoli alla comunicativa intergenerazionale.

E la ribellione può essere banale come quella del professor Cafora che, per spezzare l’angosciante ceppo stretto al collo dalla madre, va a mangiare una pizza all’ora di pranzo senza darle alcun avviso.

Oppure quella drammatica subita da Giorgio, frastornato dalla separazione imposta dalla moglie, che, davanti a un evento imprevisto, vede riemergere d’un colpo tutto quanto è rimasto irrisolto al fondo della coscienza e che paralizza ogni azione.

O ancora di Mario che, gravemente malato e mosso dalla miseria, impegna l’orologio, quasi una reliquia lasciatagli dal padre prima di scomparire. Liberatosi di quello, tenta l’ultimo conforto nell’amicizia di Ernesto, oggi fortunato grande industriale, messa in letargo da trent’anni e, all’assistere al crollo di questa, abbandona ogni speranza nel domani.

Un mondo di esistenze squassate da problemi comuni che, in misura diversa, toccano ogni essere umano.

Individui che non sanno lottare in maniera appropriata contro di essi e restano annientati dall’incapacità di saper trovare in sé strumenti sufficienti ad averne ragione.

Un’umanità travolta e perdente che si dibatte in una gabbia senz’uscita e tollera che le ombre dell’oggi, subite a volte in maniera incolpevole, si allunghino fino a condizionare in maniera irreparabile il proprio domani.

Lui è un poeta, e come tutti gli artisti a volte abusa un po' troppo delle sue grandi capacità affabulatorie, il che non significa affatto che sia anche un millantatore, né tantomeno un lestofante.
A volte potrà sembrarti un approfittatore, un bugiardo, ma ti puoi fidare di lui come e più di me; tutto ciò che fa, tutto ciò che racconta, anche se a volte potrà sembrarti bizzarro, non è che un modo come un altro per combattere la sua insoddisfazione, per provare a mascherare la realtà, per cercare di trasformarla e proteggersi così da essa.
Creare e ricreare universi alternativi in cui rifugiarsi è il suo talento più sorprendente; cerca di approfittarne fino in fondo, e non lasciarti ingannare da considerazioni banali e superficiali.


Gianfranco PECCHINENDA: Come se niente fosse
ad est dell’equatore, 2015 – pp. 128 - € 10,00

21/4/2017
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