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È morto Mario Corso, il Mandrake dell’Inter
di Mimmo Carratelli
(da: Roma del 21.06.2020)
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Aveva quei passettini lenti da bandolero stanco e una rarità di capelli da francescano penitente sull’out sinistro e, nel piede mancino, “il piede sinistro di Dio” come lo definì un giorno il commissario tecnico israeliano Gyula Màndi, la scintilla della giocata suprema, il colpo “a foglia morta” di Mariolino Corso, il Mandrake dell’Inter anni Sessanta.
Mariolino non c’è più da ieri, la morte l’ha colto a Milano a 79 anni. In silenzio aveva giocato al calcio senza pretendere mai le luci e le ovazioni che gli spettavano da campione pigro e geniale, in silenzio ci ha lasciati. Il suo carattere schivo, introverso, lo rese un artista solitario sull’erba, poi un estraneo al calcio delle chiacchiere dopo avere smesso di giocare, lasciando quindi il campo da allenatore del Verona nel 1992, lui che era veronese.
Nelle giornate pigre si isolava lungo la linea laterale sinistra col messaggio muto ai compagni di lasciarlo in pace. Inviso a Helenio Herrera, sfuggendo alla massima del tecnico “todos para uno y uno para todos”, fu il cocco di lady Renata, la moglie del presidente Fraizzoli.
Nell’Inter del Mago tutta corsa e sacrificio, e “taca la bala”, attacca il pallone, Mariolino era uno spettatore dolente dello spreco nerazzurro di energie. Ma era lui, oltre ai lanci di Luisito Suarez, alle corse da centometrista di Jair, alle piroette di Sandrocchio Mazzola e alla difesa di ferro, Sarti, Burgnich, Facchetti eccetera, era Mariolino, quando voleva, ad accendere la fiamma dell’estro e della meraviglia.
Arrivò all’Inter nel 1957, a sedici anni, presidente Angelo Moratti, da una squadretta veronese, l’Audace San Michele, e l’Inter lo pagò 9 milioni di lire, prendendo altri due giocatorini, e a Mariolino riconobbe una stipendio mensile di 70mila lire. Più di 500 partite con la maglia nerazzurra e solo 94 gol perché si concedeva poco alla gioia del pallone.
Smise con l’Inter nel 1973, a trentadue anni, e si concesse due anni finali al Genoa da pensionato di lusso. Tre volte candidato al Pallone d’oro, fu solo settimo nel 1964.
Giocoliere solista, primo violino e flautista magico quando gli andava di incantare il pallone che accarezzava con maestria, mai forzando la giocata, mai dannandosi per avere la palla, aspettandola nella sua mattonella di incantesimo dove cominciava un’altra partita di sorprendenti sortite, il piede sinistro e la palla, Mandrake e il pallone, il calcio dipinto ad opera d’arte.
A 37 anni se ne venne a Napoli a guidare i ragazzi delle giovanili azzurre proiettandoli a vincere il Campionato Primavera del 1979 incantando tutti per l’insegnamento pacato e l’assoluta ricerca della qualità tecnica.
Vinse il campionato con la doppia finale contro il Torino, 2-0 al campo Paradiso, 1-2 al Filadelfia, artificiere del piccolo scudetto Santino Nuccio, il baby palermitano “che faceva le rovesciate come Pelè”, doppietta all’andata, un gol al ritorno.
In quella squadra giocava Di Fusco in porta e c’erano i due Marino, Vincenzo e Raimondo, il caprese Celestini, il casertano Volpecina che sembrava già un anziano a 18 anni, Franchino Palo salernitano di Montecorvino Rovella. Fu una bella avventura e Mariolino lasciò un dolcissimo ricordo.