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Calcio
Juliano, l’anima azzurra
che realizzò il sogno Maradona
di Mimmo Carratelli (da: il Mattino del 27.7.2016)
Nei tempi romantici senza clausole rescissorie, procuratori, diritti di immagine e pinzillacchere contrattuali, bastarono non proprio ‘nu jeans e ‘na maglietta, ma due palloni e una muta di magliette da calcio per attrarre Antonio Juliano nel Napoli.

Era un ragazzo della Fiamma Sangiovannese che accettò il dono e liberò Juliano per il Napoli.

Antonio aveva 12 anni e andò a tirare i primi calci su un campo vicino al cinodromo di Agnano dove si allenavano i ragazzi del Napoli.

Era il 1955. Stupì subito per l’attenzione alle istruzioni degli allenatori, l’impegno totale, il carattere serio e riservato.

Veniva da San Giovanni a Teduccio, dove il padre gestiva una salumeria.
 “Per arrivare ad Agnano dovevo prendere tre autobus” ricorda.

Preciso e testardo dice: “Mi chiamano Totonno, ma è sbagliato. Totonno sta per Salvatore, non per Antonio”.

Non ne fa passare una liscia.

È il suo modo di essere sempre esigente e preciso. Il marchio di serietà stampato sul suo bel viso di scugnizzo.

Ezio Vendrame, uno dei più matti che abbiano mai giocato al calcio, ne ha fatto questo ritratto: “Mio esempio, mio orgoglio, mio vanto. E pensare che prima di conoscerti, quando giocavo contro di te, mi stavi proprio sul cazzo.
Ti ritenevo arrogante, presuntuoso, superbo. E soltanto io so come e quanto mi sbagliavo.
Ora, alla tua grande professionalità così diversa dalla mia potrei anche sputare sopra, ma per la tua grande disponibilità verso i più deboli ti nomino mio capitano per sempre”.


Cresciuto nel calcio già con l’impronta del leader, Antonio da capitano del Napoli faceva dividere i premi-partita anche con quanti lavoravano nello spogliatoio, l’indimenticabile Gaetano Masturzo sempre con un vassoio di caffè per i cronisti, Franco Di Meo, Scarpitti, Albano e Michelangelo Beato, il massaggiatore dalle mani d’acciaio.

Antonio Ghirelli ne ha parlato così: “Juliano fa parte di quella razza di napoletani atipici ai quali fanno difetto la fantasia e la genialità, ma solo perché fanno della serietà, della lealtà e del senso di sacrificio il loro stile di vita”.

Roberto Lerici, l’allenatore genovese che passò per Napoli all’inizio degli anni Sessanta, gli dette un consiglio prezioso: “Devi rubare il mestiere agli altri, ai più bravi. Non ti stancare di guardarli, guarda come si muovono, come difendono la palla, come la calciano, guardali e imparerai molto”.

Orgoglioso ma umile, Juliano aveva una gran voglia di imparare. E imparò molto fino ad affermarsi tra i migliori centrocampisti italiani al tempo di Rivera, Bulgarelli e De Sisti.

Pesaola lo fece debuttare a 19 anni in Coppa Italia contro il Mantova e, l’anno dopo, in serie A contro l’Inter al San Paolo. “Al petisso devo tutto” dice Juliano.

Giocava un calcio concreto, senza egoismi e teatralità e con la dote innata del condottiero.

I tecnici dicevano: “Detta i tempi alla squadra, si fa trovare sempre libero per cucire il gioco, ha un passo solo apparentemente lento, ma di cervello è velocissimo”.
Lui dice: “Giocare a pallone mi riempiva il cuore. È stato il mestiere che mi ha sottratto a un futuro mediocre. Sono cresciuto nel rispetto delle regole e degli affetti.
In quei tempi di guerra, eravamo tre figli, io e due sorelle. Non ricordo che ci mancasse qualcosa. Il perché l’ho capito dopo.
Non ho mai visto mio padre e mia madre andare al cinema. La casa, i figli, il lavoro, questa era la loro vita. E a me pagavano anche la scuola privata.
Non è stato facile giocare nel Napoli. Noi giocatori napoletani eravamo i più bersagliati dalle critiche. Posso dire di avere giocato per un venti per cento del pubblico del San Paolo, quello che andava al di là delle apparenze e comprendeva il mio ruolo”.


Così, in sedici anni, dal 1962 al 1978, Juliano ha giocato 506 partite in maglia azzurra segnando 38 gol.

Racconta: “Mi è mancato il gol più importante. Me l’ha rubato il mio amico Zoff in quella partita di Torino quando andammo a sfidare la Juve per lo scudetto col Napoli di Vinicio.
Pareggiai il gol che aveva segnato Causio battendo Zoff con un tiro di esterno destro da fuori area che finì nell’angolino.
Fummo sul punto di vincere, vicinissimi allo scudetto. Ma Zoff volò all’incrocio dei pali parando il mio secondo tiro, ancora una sventola da fuori area”.


Conserva la sua maglia numero 8 e poco altro. È stato il primo napoletano, dopo Sallustro, a giocare in nazionale vincendo il titolo europeo del 1968 e partecipando a tre Mondiali, 1966, 1970, 1974.

In Messico giocò gli ultimi 17 minuti della finale col Brasile entrando al posto di Bertini.

“Mi dicevano vieni a giocare nell’Inter e in nazionale giocherai sempre. Zoff, solo dopo che passò alla Juve, divenne il portiere titolare dell’Italia”.

Col Napoli ha vinto la Coppa Italia 1976. “Mi è mancato lo scudetto” racconta.

Ha contribuito, da dirigente, a farlo vincere al Napoli di Maradona sottraendo il pibe al Barcellona con una trovata astuta dopo giorni e giorni di grande tenacia.

Ci aveva tentato quattro anni prima andando a prendere Ruud Krol a Vancouver.

Puoi trovare le puntate precedenti cliccando qui:

1 - SALLUSTRO
2 – SENTIMENTI II
3 – VINICIO
4 – PESAOLA


27/7/2016
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