Cultura
Lettera ad un amico
di Franco Polichetti
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Caro Alberto,
mi sembra di capire dalle pagine del tuo diario su Facebook della scorsa settimana che hai condivisa le tesi che il prof. Galasso, insigne storico, ha recentemente espresse in un suo articolo pubblicato, il 12 luglio sul Corriere del Mezzogiorno, sul revisionismo dell’annessione del Regno delle due Sicilie al Regno del Piemonte.
Mi consentirai allora alcune considerazioni ai margini di questo articolo con una premessa del tutto personale: ma necessaria ed importante.
Innanzitutto non sono uno storico, non sono neanche un nostalgico borbonico né un sostenitore di tesi separatiste: ho sempre dichiarata la mia posizione di fiero italiano, ma meridionale.
In merito a questo capitolo della storia italiana ho sempre mantenuta una posizione che può essere riassunta in questo sintetico aforisma:
“non ignorare nè restaurare”.
Sono convinto assertore della necessità che l’unità d’Italia andava realizzata, ma sono altrettanto convinto che questa doveva essere compiuta con uno spirito di lealtà e parità e con il maggiore possibile rispetto degli ordinamenti sociali, burocratici ed economici preesistenti negli Stati preunitarii.
In una parola senza la pretesa di
“piemontesizzare” con spirito da conquistatore e con il metodo della sopraffazione.
Partendo dunque da questa premessa il mio giudizio sullo scritto dello Storico prof. Galasso è sostanzialmente negativo.
Personalmente ritengo non confacenti allo spessore di un uomo di alta cultura alcune argomentazione alquanto offensive nei riguardi di autori di pubblicazioni pro Regno delle Due Sicilie.
Ad esempio l’affermazione secondo cui questo argomento avrebbe fornito
“il fortunato appiglio per libri e scritture di scarsissimo o nessun peso storico e culturale e tuttavia portati dall’onda della moda in materia a tirature e vendite da capogiro.
Il risultato è che oggi il primo che incontriate per istrada o altrove può farvi dotte lezioni sui cento e cento primati del Regno delle Due Sicilie, sulla rapina delle ricchezze meridionali dopo il 1860".
E ancora sul felice stato e sulla lieta vita del Mezzogiorno prima del 1860, sulla deliberata politica di dipendenza coloniale e sfruttamento in cui l’Italia unita tuttora mantiene il Mezzogiorno, e su altre simili presunte
«verità», lontane dalla
«storia ufficiale».
Sorvolando sul chiaro sarcasmo di queste citazioni mi soffermo sull’espressione
“la storia ufficiale”.
Ecco, molto a proposito, questa affermazione caro prof Galasso: la
“storia ufficiale”. Ma che cosa contestano gli storici meridionalisti se non proprio la storia ufficiale?
Scritta dai vincitori, che ha esaltato solo ciò che essi, vincitori, ritenevano utile per accreditare un’immagine meritoria di tutto il compiersi risorgimentale?
Tacendo colpevolmente sulle atrocità commesse dai Savoia contro i meridionali?
E guarda, caro Alberto, che chi ti scrive annovera fra i suoi familiari il fratello del suo bisavolo materno, un uomo umile ma di ineccepibili qualità morali, un confezionatore di giacche, reo di essere un intransigente partigiano borbonico e per questa sua fede, non dissimulata, arrestato e rinchiuso nella prigione di Fenestrelle, dove fu lasciato morire tra le atrocità del freddo della fame e del lerciume.
Lo spirito dello scritto del prof Galasso al di là dell’evidenza polemica è del tutto apodittico.
Mi richiama alla memoria l’ipse dixit della scolastica medievale.
Io non conosco l’autorevolezza delle fonti, in verità di modesto numero, che il prof. Galasso ha citato; né le tesi in esse sostenute, ma da quanto lascia supporre lo scritto dello Storico, si dovrebbero considerare bugie tutte quelle sostenute dai meridionalisti che
“hanno assecondata solo l’onda della moda per fini di lucro”.
Il che, se fosse dimostrato vero, sono d’accordo in ciò col prof., costituirebbe un fine certamente poco nobile.
Ma il prof. non cita le fonti a cui ha attinto le sue verità e ciò nondimeno si lascia andare a critiche severe con affermazioni gravi affidandole solo all’autorevolezza della sua statura di Storico, universalmente riconosciutagli.
Dispiace molto sentire argomentare in maniera un po’ approssimativa uno Storico di così alto valore al solo scopo dichiarato di essere di supporto allo stato postunitario.
Ma… lasciamo andare questa polemica e mi si consenta un pò di retorica: prof. Galasso Lei è davvero convinto di quanto ha affermato? E da dove discende la Sua certezza che
“l’integrazione dei meridionali nell’Italia unita, è stata profonda, rompendo un isolamento storico che, nel caso di varie parti del Mezzogiorno, durava da secoli”?
Lei prof. dice testualmente
“mezza diplomazia italiana è stata fatta di meridionali. I due migliori capi di Stato Maggiore dell’Esercito – Pollio e Diaz – erano napoletani. Già da dopo la prima guerra mondiale la burocrazia italiana ha cominciato a essere fatta per lo più di meridionali. Quattro presidenti della Repubblica su 12 (De Nicola, Leone, Napolitano, Mattarella), vari capi di governo (da Crispi a D’Alema), innumerevoli ministri, vari e potenti capi di partito erano meridionali”.
Ma caro prof. l’elenco di alcune centinaia di personaggi, storicamente importanti, che si sono perfettamente integrati nello stato unitario è sufficiente a dar sostegno alla Sua tesi della completa integrazione dei meridionali nell’Italia unita?
La mia risposta è no!
Caro prof. ecco: faccia conto che io appartenga ad uno di quei viandanti che Lei ha incontrato per istrada e Le chieda: prof. può smentire o dare conferma che nello stato meridionale non era conosciuta la convertibilità della moneta (cioè l’obbligo della Banca di emissione di cambiare a vista i propri biglietti in verghe di metallo pregiato) perché le monete essendo coniate o con l’oro o con l’argento erano di per sé già convertite?
Può smentire che la miglior finanza pubblica in Italia; era quella del Regno di Napoli?
E che nel 1860 (in milioni di lire-oro), come riportato da F.S. Nitti, in La scienza delle finanze, le casse dello stato del Regno delle Due Sicilie: contenevano 443, 2 milioni di lire oro mentre quelle del Regno di Sardegna: solo 27 milioni di lire oro?
Francesco Saverio Nitti, che filoborbonico non era, nella sua opera, così oltre riferisce:
«Ciò che è certo è che il Regno di Napoli era nel 1857 non solo il più reputato d’Italia per la sua solidità finanziaria - e ne fan prova i corsi della rendita - ma anche quello che, fra i maggiori Stati, si trovava in migliori condizioni. Scarso il debito, le imposte non gravose e bene ammortizzate, semplicità grande in tutti i servizi fiscali e della tesoreria dello Stato.
Era proprio il contrario del Regno di Sardegna, ove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi, dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni continue fatte senza criterio; con un debito pubblico enorme, su cui pendeva lo spettro del fallimento.
Senza togliere nessuno dei grandi meriti che il Piemonte ebbe di fronte all'unità italiana, che è stata in grandissima parte opera sua, bisogna del pari riconoscere che, senza l'unificazione dei vari Stati, il Regno di Sardegna per l'abuso delle spese e per la povertà delle sue risorse era necessariamente condannato al fallimento”.
Prof. Galasso allora dobbiamo dire che anche Nitti è stato di scarsissimo o nessun peso storico e culturale se nei suoi saggi
Nord e Sud (1900) e nel successivo
L'Italia all'alba del secolo XX (1901), espone la sua tesi
“sulle origini del dislivello economico e sociale tra settentrione e meridione italiano” e critica il procedimento in cui avvenne l'unità nazionale, che per lui non produsse benefici in maniera equa in tutto il paese e lo sviluppo dell'Italia settentrionale fu dovuto in grande misura ai sacrifici del Mezzogiorno?
Polemizzò aspramente con i governi del suo tempo che, oltre a stanziare fondi di sviluppo maggiormente nelle zone settentrionali, istituirono un regime doganale che favoriva Liguria, Piemonte e Lombardia, accentuando così il divario tra le due parti e mantenendo il sud, come un
«feudo politico».
Attraverso le sue ricerche, osservò una grande disparità a livello fiscale tra nord e sud, notando che città meridionali come Potenza, Bari, Campobasso avevano una pressione tributaria superiore a città settentrionali come Udine, Alessandria e Arezzo.
Nitti, tuttavia, non lesinò critiche anche alla classe politica del meridione stesso, accusandola di mediocrità e disonestà.
Vorrei ancora chiedere al prof. Galasso smentita o conferma dei tanti primati conquistati dal Regno delle due Sicilie se non rischiassi di essere confinato tra quei
“viandanti imbonitori” dei primati duosiciliani.
Ora caro prof. può anche essere vero che i primati non devono essere intesi come parametro rappresentativo di uno stato sociale di diffuso benessere ma non possono neanche essere messi in berlina come Lei fa.
L’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856 assegnò al Regno delle due Sicilie il Premio per il terzo Paese al mondo come sviluppo industriale (primo in Italia…); non credo che sia stato un caso del tutto fortuito, come non credo che sia un’invenzione che nel febbraio del 1828 Francesco I di Borbone incaricò l’ingegnere di stato Luigi Giura di provvedere alla costruzione di un ponte sospeso in ferro sul Garigliano, e che l’ing Giura dovette per ragioni di maggiore stabilità studiare e progettare degli appositi profili strutturali poi prodotti in fusione di ghisa negli altiforni delle acciaierie di Moggiana.
Se non fosse stato minato e fatto saltare dai tedeschi in ritirata, il ponte sarebbe ancora oggi lì sul Garigliano, come primato della scienza e della tecnica napoletane nonostante lo scetticismo degli Inglesi, i quali erano stati i primi a costruirne uno ma che videro cedere dopo poco tempo.
Ho piacere di concludere questa mia alquanto
“tediosa” antilogia pubblicando la testuale risposta che è stata data qualche anno fa, da un momentaneo innominato, a questa domanda:
Che cosa rappresenta per la civiltà italiana la storia del Regno di Napoli?
Risposta dell’innominato:
«Il Regno ha formato per secoli uno degli Stati maggiori e fondamentali nella storia d'Italia. Alla civiltà italiana ha contribuito nei modi più varii: nel campo artistico e culturale come nel campo di quel sistema economico che l'Italia ha formato per secoli anche prima della sua unità politica, e come nel campo delle esperienze sociali di cui la storia italiana si è alimentata e che hanno spesso avuto nel Mezzogiorno uno dei loro maggiori teatri.
Del resto, pensate a quel che sarebbe una storia della civiltà italiana senza il Mezzogiorno; e, quindi, senza il grande Barocco meridionale nell'arte e nella letteratura, senza il grande Illuminismo napoletano, senza la filosofia meridionale del Cinquecento (Telesio, Bruno, Campanella) e dopo (si pensi a Vico), senza l'Umanesimo napoletano da Pontano a Sannazzaro, senza la storiografia da Giannone a Cuoco e a De Sanctis, e mi fermo qui, al solo campo della cultura e dell'arte».
Complimenti all’autore di questa risposta che condivido puntualmente.
Essa però non è stata data da quel viandante, tante volte citato,
ma incredibile dictu, dall’illustre Storico prof. Galasso nell’intervista fattagli in occasione della presentazione della sua opera
“la Storia del Regno di Napoli” in cinque volumi edita da UTET.